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Gelsi e bachi, un binomio antico

Gelsi e bachi, un binomio antico

IN FOTO Bachicoltori al lavoro

Bigaté» è uno di quei sostantivi piemontesi per i quali è difficile trovare l’esatto corrispondente in italiano. Il termine, infatti, indica sia l’allevatore sia il commerciante dei filugelli, cioè dei bachi da seta (in piemontese «bigat»). Molto diffusa fra le famiglie contadine, l’attività era collegata alla coltivazione del gelso («moron» o «moré»), delle cui foglie si alimentano i preziosi lepidotteri. « Cochèt» venivano detti i bozzoli dei bachi.

I gelsi prosperavano un po’ dappertutto nella pianura piemontese, specie lungo i rivi. Informa un documento che si riferisce a Settimo e risale all’anno 1822: «Non si può calcolare la foglia, ma si sa per certa scienza che eccede il consumo del paese; li particolari soglion venderne a quelli delle vicine colline oltre il fiume Po». All’epoca, in Settimo Torinese, la produzione annua dei bozzoli ammontava a ottocento rubbi. Il rubbo era l’unità di misura per i pesi prima che fosse introdotto il sistema metrico decimale: diviso in venticinque libbre, equivaleva a poco più di 9,2 chilogrammi. Ottocento rubbi, pertanto, corrispondono a circa settantaquattro quintali, una quantità non propriamente trascurabile per l’economia della piccola Settimo che allora contava 2.730 abitanti. Successivamente la produzione dei bozzoli si attestò su livelli ancora superiori, raggiungendo una punta massima di 146 quintali nel 1893. 

«Ognuno che prenderà foglia da’ moroni altrui incorrerà nella pena di soldi cinque, se avanti li 15 maggio, e di soldi tre se dopo detto tempo, per caduna libra d’essa».

Sia i bandi campestri del 1609 sia quelli del 1739 tutelavano i gelsi, punendo i furti di foglie con severe pene pecuniarie. «Ognuno che prenderà foglia da’ moroni altrui – ammoniscono i bandi del 1739 – incorrerà nella pena di soldi cinque, se avanti li 15 maggio, e di soldi tre se dopo detto tempo, per caduna libra d’essa». Le due distinte ammende trovano giustificazione nel fatto che i bachi, dopo la metà di maggio, avevano presumibilmente smesso di mangiare per avvolgersi nel bozzolo.

Allevati su scala familiare, i «bigat» richiedevano cure assidue. Si cominciava a metà aprile, quando occorreva procurarsi le uova, vendute abitualmente in sacchettini di lino. Di solito se ne comperava un quarto d’oncia oppure mezza oncia (dai 7,5 ai 15 grammi circa). Affinché si dischiudessero era indispensabile tenere le uova in un ambiente caldo e pulito, ad esempio nel granaio o in una stanza di casa, al riparo dagli spifferi, fra due pezze di stoffa distese su particolari telai. Talvolta, per favorirne l’apertura, le donne le custodivano tra i vestiti. Sempre a Settimo Torinese era consuetudine, la prima domenica di maggio, che le portassero in seno alla processione di Santa Croce. Dischiuse le uova, si premuravano di non far mancare il gelso ai voracissimi bacolini. A intervalli regolari di tempo, due o tre volte al giorno, somministravano le foglie, dapprima tagliuzzate finemente, poi intere.

Durante lo sviluppo i bachi subiscono quattro mute, assopendosi ogni volta. L’ultimo letargo è di maggiore durata. Al risveglio i bachi si arrampicavano su graticci appositamente preparati e cominciavano a filare, avvolgendosi in un bozzolo biancastro. Quando questo raggiungeva una certa consistenza al tatto, prima che il bruco già trasformatosi in crisalide subisse la metamorfosi in farfalla, veniva prelevato per essere sottoposto a un trattamento di essiccazione rapida. In tal modo la crisalide moriva senza danneggiare i fili. Liberati dalle faloppe, i bozzoli erano venduti sul finire del mese di maggio, a prezzi che potevano variare sensibilmente a seconda delle annate.

Gli abitanti di Settimo facevano commercio dei bozzoli durante la fiera di primavera, altrimenti detta fiera di Santa Croce o «Fera dij cochèt», istituita dall’amministrazione municipale in seguito alle regie patenti del 14 marzo 1848. 

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