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15 Aprile 2023 - 09:57
NEL RIQUADRO Bivacco di pastori in una miniatura di un libro del XVI secolo. In diversi statuti canavesani erano presenti norme per impedire la vendita di carni ovine malsane
Il “Dizionario della lingua italiana” di Devoto-Oli così definisce il vocabolo “Igiene”: Ramo della medicina che si occupa dello studio, dell’insegnamento e dell’attuazione delle misure individuali e collettive atte a salvaguardare il mantenimento della salute fisica e mentale, specialmente prevenendo l’insorgere e il diffondersi delle malattie. Comunemente: Il complesso delle norme igieniche, con particolare riferimento alla pulizia personale o degli ambienti.
Durante il Medio Evo una simile definizione era del tutto inapplicabile alla realtà quotidiana di Ivrea e degli altri centri canavesani. Se circoscriviamo l’analisi ai secoli XIV-XV, il quadro che si può tracciare leggendo i documenti ed in particolare gli Statuti è a dir poco allucinante ed assai simile a quello dei più miserevoli paesi del nostro terzo o quarto mondo. Iniziamo dall’igiene ambientale.
La conca eporediese lasciata dal grande ghiacciaio, oggi ridotto alla cosiddetta “mer de glace”, era una sorta di enorme spugna zuppa di acqua, che in alcuni tratti si apriva in laghi, o in acquitrini.
Questa grande estensione di acque stagnanti era fonte di malanni d’ogni genere per la salute degli abitanti, di cui i miasmi erano nulla in confronto ad agenti patologici originati dalla putrefazione di animali o di altro materiale organico in decomposizione, o ancora dalla presenza di sciami di zanzare che negli acquitrini trovavano l’habitat migliore per la loro riproduzione. Tutto ciò non era considerato elemento importante dalle autorità locali. Gli interventi per drenare il terreno infatti non avevano come scopo la tutela della salute pubblica, ma il recupero, ai fini agricoli, di appezzamenti di terreno altrimenti sommersi dall’acqua o comunque acquitrinosi. I responsabili della cosa pubblica sovente, anche se in maniera disorganica, tentarono di costruire un sistema di canali più o meno grandi che consentissero all’acqua in eccesso di defluire.
A noi sembra abbastanza curioso che le spese per tali lavori fossero messe a carico di chi abitava nella zona in cui si dovevano effettuare, per di più, se l’opera era ritenuta dalla Credenza tale da coinvolgere un numero a suo avviso sufficiente di cittadini, la sua esecuzione veniva imposta d’autorità; in caso contrario il lavoro si effettuava solo se gli interessati ne facevano richiesta al Podestà, ed il costo ricadeva su di loro.
Talvolta era il Comune di Ivrea che costruiva un fossato o un canale, ma poi ne imponeva la manutenzione agli abitanti dei luoghi coinvolti. Quando la costruzione di un fossato o canale era considerata di rilevante importanza per la città, l’imposizione della Credenza era tassativa e non vi si poteva in alcun modo derogare.
Un esempio ci è fornito dal cap. XXX degli Statuti del 1329. Per lo scavo di un fossato, evidentemente ritenuto importante, si fissano le date di esecuzione dell’opera, che dovrà iniziare alle calende di marzo (1° marzo) e terminare entro la fine di aprile, pena una multa per ciascuno dei “sorestani” (sorveglianti o direttori dei lavori o ispettori), i quali dovevano giurare solennemente di eseguire il loro incarico in perfetta buona fede; persino il Podestà ed i suoi giudici dovevano impegnarsi con analogo giuramento a fare in modo che tutto procedesse regolarmente.
All’interno della città, gli attentati alla salute pubblica e privata erano anche più numerosi e gravi. Le strade, anzitutto.
Se quelle di campagna necessitavano di frequenti interventi di manutenzione, consistenti soprattutto nel gettare sulla sede stradale la terra di risulta dello scavo e della pulizia di canali e fossati, pure le vie all’interno della cinta muraria presentavano inquietanti e pericolosi inconvenienti. Anche se la maggior parte era pavimentata con mattoni, più raramente con pietre, alcune di esse erano in terra battuta; tutte ricevevano direttamente le acque di scarico; non c’era un sistema di fognature e tutti i liquami si sparpagliavano per la strada e, nel migliore dei casi, erano convogliati in qualche raro canaletto di scolo, spesso a cielo aperto. È facile immaginare quanto poco piacevole fosse passare in mezzo ad un tanfo per noi insopportabile.
Proprio agli inizi del sec. XIV la Credenza intraprese una saggia opera di risanamento. Essa non ottenne tutti gli effetti desiderati, perchè non si agì secondo un piano organico, ma si intervenne qua e là, dove la situazione sembrava più preoccupante, oppure ledeva gli interessi di famiglie influenti. Tuttavia rappresentò un meritorio, quantunque non risolutivo, punto di partenza.
Uno dei capitoli più interessanti e chiarificatori, al riguardo, è il LVI del IV libro, dedicato all’ obbligo di chiudere le latrine e gli acquai.
(I Credendari) stabilirono poi ed ordinarono che qualunque persona abbia o abbia avuto una cloaca o una latrina, la cui poltiglia puzzolente scorra in una via o strada pubblica, sia tenuta a bloccarla convogliandola in un canaletto sigillato in modo che non si spandano per la strada né lo sterco né la puzza. Quando però piove forte, sia permesso a chiunque aprire le latrine perché si puliscano e si lavino e dopo siano subito chiuse. E ancora, tutti quelli che hanno fori di scarico attraverso i quali scorrano o possano scorrere acqua o sconcezze di vario tipo e riversarsi nelle strade o vie pubbliche e nella casa di Grandi e nella casa dove ha l’abitudine di stare Andrea Olierio, vengano obbligati ad eliminarli, otturarli e chiuderli.
È curioso che i vicini buttassero nelle case o pertinenze di quelle persone i loro scarichi.
E nessuno possa rovesciare o scaraventare nelle pubbliche strade o vie acqua o altri liquidi attraverso o giù da qualche finestra, buco, loggiato, solaio o balcone. Per controllare l’applicazione di tutte queste norme, si eleggano tre sorestani, uno per ogni rione. Costoro giureranno di svolgere indagini e ricerche di tutte le predette latrine della città di Ivrea e dei fori di scarico da cui acque, puzze, sterco ed altre sconcezze si immettono o possono immettersi nelle pubbliche strade o vie. Il risultato delle loro indagini dovrà essere verbalizzato e consegnato al Podestà o al Giudice. Il loro lavoro si dovrà concludere entro 15 giorni dalla data del giuramento. Il Podestà o il Giudice, ricevuti i verbali, immediatamente faranno convocare presso di loro tutte le persone che hanno le predette latrine, fori o scarichi, imponendo a tutti loro di otturarli e chiuderli come detto sopra, entro 15 giorni dall’Imposizione, e di osservare tutte le norme, sotto pena di 60 soldi, che saranno sborsati, per ogni infrazione, da chiunque abbia contravvenuto non osservando le predette disposizioni.
Il Podestà o i1 Giudice, se scopriranno che qualcuno, pur avendo pagato la multa, non si era messo in regola, lo costringeranno ad obbedire, infliggendo maggiori pene stabilite a loro arbitrio.
Le presenti disposizioni non troveranno applicazione al rigagnolo o canaletto che scorre fra le case di frate Ambrogio Portiglole e di Boni Giovanni della Biava, per il fatto che i sorestani, cui erano a suo tempo affidati i lavori di pavimentazione delle vie, avevano fatto pendere la strada verso il rigagnolo, cosicché tutte le acque inevitabilmente vi finivano dentro. Se, in altre zone della città, vi era un canale di scolo irregolare ed il proprietario di una casa che si affacciava sulla strada voleva coprirlo e sistemarlo, mentre il dirimpettaio rifiutava, il primo proprietario poteva fare i lavori a proprie spese. Ad opera ultimata, il Podestà o il Giudice dovevano costringere il recalcitrante a rimborsare, entro 10 giorni, la metà della spesa, riguardo il cui ammontare si prestava fede a quanto dichiarato sotto giuramento da chi aveva fatto eseguire il lavoro.
Il XLI capitolo del IV libro tratta del raccordo degli scoli provenienti dalle singole case con il collettore al centro della via (dove esistente) e fornisce qualche dettaglio costruttivo.
Al centro della strada che andava dalla casa degli eredi di Matteo Droy ... fino alla stradina di Sant’Orso si doveva costruire un collettore principale, in cui i proprietari delle case che si affacciavano sulla via dovevano far confluire le loro riane (canaletti di scolo), e queste riane abbiano ognuna buoni cunicoli di buoni mattoni e pietre, attraverso i quali le loro acque e materiali fetidi giungano nel cunicolo che vi sarà in mezzo alla strada.
La Credenza era dunque ben cosciente della necessità di porre rimedio alla situazione di fogna a cielo aperto in cui si snodava la viabilità interna della città ma, come già accennato, non arrivò mai alla formulazione di un progetto unitario che regolamentasse il deflusso delle acque e dei liquami di tutta la città. Si trattava sempre di interventi parziali, adottati per tamponare situazioni particolarmente degradate, quindi le condizioni generali di Ivrea a questo riguardo, rimasero sostanzialmente immutate per lungo tempo ancora.
Per confermarci quanto comuni fossero situazioni del genere e quanto remoto fosse il concetto di igiene quale noi intendiamo, basti un rapido raffronto. A Chivasso viene categoricamente proibito di gettare nelle pubbliche vie qualunque sconcezza:
...nulla persona cuiusvis conditionis existat, audeat vel presumat proiicere aliquod turpe, videllcet aquam, scopaturam domus, mondillas, urinam, stercora, nec allquid jnhonesti, a solarijs, fenestris, et lobijs jnfra jn stratis et vljs publicis...
Il che significa: ... nessuno, a qualunque ceto sociale appartenga, abbia il coraggio o l’ardire di scaraventare qualche porcheria, cioè acqua, spazzatura della casa, immondizie, urina, sterco, né alcun’altra robaccia, da solai, finestre e loggiati giù nelle strade e vie pubbliche ...
Queste disposizioni si trovano negli Statuti del 1496 e ribadiscono una condizione generalizzata in Canavese e presente si può dire in tutta la Penisola: basterebbe pensare a Firenze, quale ce la descrive il Boccaccio in alcune novelle del suo Decameron.
Anche la pulizia delle strade cittadine preoccupava la Credenza. Essa non giunse però mai ad organizzare un servizio di nettezza urbana come intendiamo noi, con operatori ecologici stipendiati. Tuttavia, in più riprese ordinò di non lordare le strade con letame, spazzatura ed altre porcherie, cosicché, specialmente quelle solate et que solabuntur (quelle che già sono pavimentate e quelle che lo saranno in seguito) teneantur munde nitide et curate (siano tenute pulite nette e curate). Spesso ordinò di non scaricare per le strade rifiuti come paglia, terriccio, calcinacci, ritagli della lavorazione di calzature, cenere, marciume, carogne di animali ed altre sconcezze varie. Con tali abitudini, ovviamente erano pesanti le conseguenze sul piano igienico per chi doveva vivere in mezzo a tanti miasmi, a contatto con materiali stracolmi di agenti patogeni
Gli abitanti, del resto, contribuivano anche con altri sistemi all’incremento dell’insalubrità.
Ecco che cosa dice il capitolo LVII del III libro.
Stabilirono poi ed ordinarono che nessuno debba fare né tenere un porcile o un truogolo né dar da mangiare ai porci nelle pubbliche strade o sotto I portici all’interno della città, pena la multa di 12 imperiali per ciascun contravventore e per ogni volta, e malgrado questo sia costretto a togliere via tutto. E neppure si azzardi qualcuno a tenere delle bestie bovine a giacere in dette strade e portici di notte, sotto pena di 3 imperiali per ogni bestia e per ogni volta; e se qualcuno lascerà andare qualche porco o scrofa nel mercato o per la contrada detta del mercato nei giorni di venerdì e martedì (giorni in cui, allora come oggi, si svolgevano i mercati settimanali) dall’ora terza fino ai vespri (dalle 9 al tramonto), paghi ogni volta una multa di 2 soldi, e chiunque possa denunciare il fatto, e per questo riceva la metà dell’ammontare della multa.
Qualcosa di simile si legge negli Statuti di Chivasso del 1306 (cap. DII). Nessuna persona di Chivasso o abitante a Chivasso abbia il coraggio o la presunzione o si senta autorizzato a costruire o far costruire un porcile o un edificio per tenervi i maiali sotto I portici o per le vie o in nessun altro luogo se non dentro casa sua, sotto pena di 60 soldi ... e neppure dare o far dare da mangiare ai maiali sotto I portici e nelle vie ... sotto la stessa pena.
Altri attentati all’igiene venivano dal cibo, in parte per la difficoltà di conservare gli alimenti che, unita alla necessità di non buttar via nulla, portava talvolta a mangiar cose avariate. Sovente erano colpevoli anche gli stessi bottegai per la loro pessima abitudine di vendere derrate non fresche, adulterate o diverse da quanto dichiarato.
Molto interesse dimostrano gli Statuti (di Ivrea) per il settore dell’alimentazione, ma l’interesse della Credenza andava non tanto alla salvaguardia della salute pubblica, quanto soprattutto alla repressione delle frodi, dei furti, dei guadagni illeciti, come dice esplicitamente un passo del capitolo LVII, dedicato ai mugnai.
Il Podestà ... entro 15 giorni dal suo insediamento, faccia venire in sua presenza tutti i mugnai e i loro servi e apprendisti, facendo loro promettere e giurare che salveranno e sorveglieranno fedelmente tutto il grano e la farina che avranno e riceveranno da macinare, non permettendo in alcun modo o con inganno e frode che se ne faccia un furto o guadagno fraudolento o rapina.
Anche quando il capitolo sembra andare verso una forma di tutela della salute dei clienti, si scopre subito che si vuole solo evitare la frode.
E poi che restituiranno la farina ben macinata e pura e di giusto peso, e non depositeranno e non permetteranno o acconsentiranno che si deponga il sacco di farina o di grano in un luogo umido, o che si metta in atto qualunque altra furberia perché pesi di più.
In compenso, però, al povero cliente ingannato veniva fatta una curiosa concessione.
Sia lecito, inoltre, a qualunque proprietario della farina, prendersi impunemente un asino o una (altra) bestia del mugnaio che gli ha dato la farina non ben macinata e non ben pesata, finché il mugnaio non gli avrà rimborsato il danno ... e si creda a chiunque, quando giura riguardo al predetto danno di farina male macinata o mal pesata o persa (!!!).
Assai più pericolose potevano essere certe birbonate messe in atto dai macellai, ma anche in questi casi alla Credenza interessava la frode e non tanto le conseguenze sul piano sanitario.
Il capitolo LXXI del I libro prescrive che i beccai, di fronte al Podestà, giurino che non venderanno carni di ariete, di pecora o di caprone per carni di crestonino (=sanato), né carni di scrofa per carni di maiale maschio ... sotto pena di 10 soldi... e che onestamente dichiareranno, a tutti quelli che vogliono comprare carne da loro, quali carni siano e di quale bestia, se ne saranno richiesti dal compratore, pena la stessa multa; e che gli stessi beccai o qualunque altra persona non debbano vendere né far vendere entro le mura della città di Ivrea né nella stessa città (compresi cioè i borghetti) carni avariate o [di animali] morti per qualche malattia, ma neppure gonferanno la carne, né farciranno o faranno farcire I rognoni, né copriranno la carne di grasso ... sotto pena di soldi 10 ...
In quest’altra infilata di obblighi e divieti affiora qua e là un minimo di preoccupazione per la salute della gente.
Non si poteva proibire ai beccai di macellare, dall’aurora in poi, e di vendere le carni, purché di animali sani; se le volevano vendere, dovevano lasciare le mammelle attaccate al corpo delle pecore, e lo stesso dovevano fare con i testicoli di caproni, arieti, maiali e tori; la multa per i contravventori era al solito di dieci soldi; le budella non dovevano essere lasciate negli animali uccisi ed inviati nei punti vendita, ma le loro interiora non dovevano essere buttate nella pubblica strada o dentro il negozio o davanti il negozio stesso; non si dovevano aprire le budella né svuotarle del contenuto nel negozio, nelle piazze, sotto i portici o nelle vie pubbliche.
La pessima abitudine di gonfiare gli animali macellati per dar loro un aspetto meno malandato viene stigmatizzata anche negli Statuti di San Giorgio del 1422, al capitolo LXVI, con un gustoso paragrafo: Jtem nullus audeat cum ore botare et clonfare bestias aliquas venales, che significa: Nessuno poi si azzardi a gonfiare e riempire d’aria con la bocca le bestie da vendere.
Dagli inizi del XV secolo, però, il collegamento fra l’ingestione di carni avariate e i danni per la salute affiora sempre più di frequente.
Negli statuti di Canischio, del 1407, vi è un sintomatico capitolo, il XV, in cui si dettano norme che potremmo ben definire di prevenzione.
Stabilirono poi ed ordinarono che se succede ora o in futuro che una persona di Canischio abbia una o più bestie affette da quella che si chiama bolsaggine (il testo latino reca apormonatam: sofferente di affanno, difficoltà di respiro) o da altri malanni, o pecore o altri capi di bestiame affetti dal morbo detto di Ciò (si tratta del capostorno, una grave malattia che colpisce varie specie di animali domestici, dovuta ad un aumento della pressione endocranica) o di altre malattie ... dovrà immediatamente presentare ai Consoli denuncia di tali bestie malate ... e dovrà tenere tali bestie malate e contaminate in rigoroso isolamento nel luogo indicato dalla Credenza e non farle uscire da quel luogo ... sotto pena di 60 soldi viennesi per ogni capo di bestiame e per ogni infrazione.
Nel secolo XVI si fa più esplicita e frequente la preoccupazione per la salute della gente, che le autorità tentano di tutelare con varie disposizioni, riguardanti anche l’alimentazione.
Negli Statuti di Alice Castello, datati 1514, si trova un capitolo, il LXIV, che impone al proprietario di seppellire immediatamente la bestia morta “de per se”, cioè non uccisa, ma morta per malattia: la dovrà seppellire e sotterrare, fuori dal centro abitato e dalle strade, tanto accuratamente che non esali alcun fetore e non puzzi, e i cani o altre bestie non la possano dissotterrare.
Ancora più esplicita è la motivazione addotta nel capitolo LXVI.
Generalmente succede che le carni infette causino nelle persone che le mangiano brutti malanni. Perciò stabiliamo ed ordiniamo che se un macellaio o chiunque altro venderà a qualcuno carne di una bestia morta di malattia, o di una bestia che era malata ed è stata macellata, o comunque [venderà] carne putrida, guasta o deteriorata, paghi ogni volta una multa di 25 soldi di moneta corrente.
Anche gli Statuti di Caluso del 1510, al capitolo LIV, vietavano di detenere o vendere carni malate, malsane o infette, che potessero causare malattie.
Da quanto sin qui detto, sembra proprio che i maggiori attentatori della salute pubblica fossero i macellai. Chissà poi quali possibilità vi erano che le Autorità preposte fossero in grado di scovare, neutralizzare e punire tutti i contravventori...
Del resto, l’alto costo della carne invogliava il venditore a ricorrere a qualunque sotterfugio pur di non perdere il suo cospicuo guadagno.
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