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Pagine di storia in Valchiusella

Vincenzo Garavetti. Il maestro del Caudano.

Un articolo di Franca Bertarione per la rivista Canavèis

Eleonora Duse

Eleonora Duse

Correva l’anno scolastico 1945 – 1946. Fresca di diploma magistrale, aprivo, nella scuola elementare di Brosso, proprio in coincidenza con il diciottesimo compleanno, la mia lunga ininterrotta carriera didattica (1945 – 1992).

Tra i primi lontani ricordi emerge e spicca la figura del mio primo caro collega, il maestro Alfredo Vignola. 

Con lui trascorrevo il primo periodo di esperienza didattica, nonché il quotidiano percorso a piedi Vico – Brosso e ritorno.

Grazie al clima particolarmente piacevole, soleggiato e mite dell’autunno 1945, cedemmo alla tentazione di rendere visita al decano dei maestri valchiusellesi. Vincenzo Garavetti (1876 – 1963), allora quasi settantenne e da poco in pensione, viveva solitario nel suo eremitaggio del Caudano. Ci accolse con la tipica cordialità del convalligiano e ci intrattenne rievocando testimonianze e nitidi ricordi di un’estate della sua infanzia trascorsa con Eleonora Duse, che villeggiava in casa Garavetti, al Caudano, nell’estate del 1884.

Ritrovo ora, nell’ottobre 2010, fra ormai vecchi documenti, la pagina di cronaca (ottobre 1945) che riporto di seguito.

Eleonora Duse in Valchiusella

Brosso, luglio, agosto e settembre 1884.

Uno degli angoli più panoramici e pittoreschi della Valchiusella è il Caudano di Brosso, “il luogo delizioso” che Giuseppe Giacosa aveva scelto nell’estate del 1884, per la villeggiatura di Eleonora Duse.

Il premuroso interessamento del “buon Giu” ci è testimoniato da una sua lettera, scritta da Ivrea il 14 luglio di quell’anno al Fogazzaro, ed è conseguente al fatto che, proprio mentre stava per portare sulle scene “La contessa di Challant”, Eleonora Duse doveva abbandonare le luci della ribalta e cercare riposo nell’ombrosa valletta del Caudano.

A sessant’anni da quel soggiorno, mentre si chiude il settimo lustro sulla morte della grande attrice, nella casetta rustica e solitaria del Caudano si conserva nel tempo il ricordo vivo di quell’ospite singolare.

Da Brosso si accede al Caudano per una strada che prende avvio da una piazzetta situata nella parte alta del paese; particolarmente suggestiva per il panorama che domina, la strada oggi è carrozzabile ed assai praticata, fino a qualche decennio fa, invece, doveva essere una stretta mulattiera a fondo selciato: si ricorda infatti dai decani brossesi che Eleonora Duse la percorreva servendosi di una sua particolare cavalcatura, un muletto sardo che l’accompagnava nelle gite in montagna.

In prossimità del paese la strada oggi è fiancheggiata da qualche villa di recente costruzione, poi si inoltra nel castagneto secolare, che in questa zona è ancora foltissimo e, tra cappelle votive e limpide fontane, procede quasi pianeggiante, fino al ponticello sul torrente Assa.

IN FOTO Il maestro Vincenzo Garavetti, a destra, con una scolaresca di Brosso

Subito dopo il ponte, al di sotto della strada e seminascosta tra i castagni, c’è la rustica casetta in cui Lucia Garavetti, che la abitava con il suo Vincenzo di otto anni, ospitò nei mesi di luglio, agosto e settembre 1884, la bella e famosa signora che, pur venendo dalla città, non incuteva affatto soggezione, anzi con la sua affabilità, ispirava confidenza ed amicizia, suscitando anche fra i montanari la più schietta ammirazione.

Un arco aperto nel muro di cinta, invaso sa edera e caprifoglio, immette in un piccolo cortile erboso ed ombreggiato.

Si fa sulla porta un simpatico, sorridente vecchietto che accoglie i visitatori con la schietta cordialità propria del montanaro valchiusellese: è Vincenzo Garavetti che, dopo la morte della madre, vive solo con la modesta pensione di ex maestro di scuola elementare, nell’antica, rustica casa dove – egli assicura – nulla è cambiato da quel lontano, memorabile 1884. 

C’è la caratteristica scala esterna fatta di lastroni in pietra, levigati e un po’ sconnessi dal tempo, e poi la “lobbia” o loggia, in parte chiusa con vetrate e adattata a veranda.

È qui che il Maestro introduce i visitatori nei quali la curiosità cede subito allo stupore poiché nei nostri giorni, nessuna signora, per quanto modeste siano le sue esigenze, condividerebbe la scelta della Duse che definiva “delizioso” il suo alloggio al Caudano ed aveva la costanza di protrarlo per tre mesi.

Sulla parete interna della veranda fanno mostra di sé, circondati dall’alone di parecchi intonachi che si sono arrestati intorno ossequianti, alcuni affreschi autentici di Tebaldo Checchi, il modesto attore dell’equipe di Cesare Rossi, che Eleonora Duse, ventitreenne aveva sposato e che, in compagnia dello Zolis, l’aveva seguita nella villeggiatura del Caudano.

Gli affreschi comprendono, fra alcuni stemmi dei nobili casati, anche quello del Checchi portante, in campo rosso, un braccio armato di accetta e quello della Duse che porta, pure in campo rosso, una fascia diagonale azzurra su cui si legge in caratteri cubitali DEUS (da Duse).

L’arditezza dell’anagramma – fa notare il Maestro ai visitatori – si giustifica richiamando in causa, non tanto il sentimento di cieca adorazione del marito, quanto piuttosto l’insuperata fama dell’attrice che, proprio in quel tempo, calcava le scene e, come dea, passava di trionfo in trionfo, raccogliendo clamorosi applausi e suscitando entusiastiche ammirazioni.

Accanto ai due stemmi sormontati da un ramo d’alloro, è poi raffigurato un pontefice paludato in sacri paramenti e, più sotto, un agile veliero. Come spiegare la stranezza di questi accostamenti se non con quel poco di malignità che i fatti storici sembrano suffragare? 

Mentre in quel 1884 nella vita della Duse entrava decisamente Arrigo Boito, il quale, scortato dal Verga e dal Giacosa, le era prodigo di visite e non adduceva a sacrificio neppure le frequenti sgambate fino al Caudano, il povero marito incominciava a rendersi conto che il peso assunto era troppo greve per la sua fronte e collegava, all’idea dei due stemmi congiunti, quella del Supremo Giudice del Tribunale della Sacra Rota e traduceva in linee un’agile mezzo per varcare l’oceano.

Nel 1885 Tebaldo Checchi si separava infatti dalla Duse e si occupava in America, dapprima come corrispondente d’un giornale romano, e poi come diplomatico.

Che cosa fosse per Eleonora Duse il suo soggiorno al Caudano, lo dice lei stessa, scrivendo in quei giorni: “… da quest’altezza modesta e pur considerevole, da questo profumo -  l’odore puro, direi immacolato, della montagna  - da questo verde che riposa l’occhio irritato dalla luce del gas dellla città, da quest’aria che rimette a nuovo i polmoni affaticati e calma le febbri sorde che dà il contatto con la città … mi sento rinascere buona, senza pretese, con poche vesti, con pochi quattrini …”. 

È espressa in questa lettera l’aspirazione profonda a liberarsi anche degli accessori – “poche vesti, pochi quattrini”  della vita fittizia del palcoscenico, per godere a fondo d’una vita più ricca umanamente, più semplice e più naturale qual è la vita del montanaro.

Il folto gruppo dei suoi ammiratori non le concedeva tuttavia di obliarsi a lungo in quell’oasi di pace e spesse volte in quei tre mesi il Caudano accolse visitatori illustri. 

Il Maestro Garavetti ricorda, ad esempio, un giorno, in cui ricorreva la festa dell’attrice ed i modesti locali della sua casa non potevano accogliere “tutti quei signori del gran mondo”, ch’essi dovettero adattarsi a sedere sui gradini della scala esterna e persino sul muricciolo del cortile e della strada.

Ma il ricordo più bello che il vecchio Maestro conserva di quei giorni della sua infanzia trascorsi accanto a Eleonora Duse ci raffigura l’attrice in questo simpatico atteggiamento: “… io la seguivo per mano, andavamo nel castagneto qui vicino, sedevo accanto a lei e mi faceva recitare le poesie imparate a scuola …”.

Anche in Eleonora Duse la donna era superiore all’artista e stupendamente si affermava ogni volta che in lei risorgeva quell’insopprimibile istinto di maternità, quell’ideale grande e vero che nessuna donna può tradire e sacrificare ad altro ideale fittizio senza compromettere per sempre la propria serenità.

Tratto dalla rivista Canavèis

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