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Cronaca
22 Ottobre 2025 - 09:47
Dietro le vetrate oscurate di capannoni anonimi, in periferia di Torino, si nascondeva una città nella città. Un mondo parallelo dove il rumore dei macchinari non si fermava mai, il tabacco veniva trasformato in sigarette contraffatte e uomini sfruttati come schiavi lavoravano senza luce del sole, senza diritti, senza voce.
È qui che è arrivato il colpo della Guardia di Finanza e dei Carabinieri di Torino, in un’operazione imponente e perfettamente coordinata dalla Procura della Repubblica, battezzata con ironia amara “Chain Smoking”.
Il nome dice tutto: una catena del fumo, ma anche una catena criminale che intrecciava contrabbando, contraffazione e tratta di esseri umani, spinta da un unico obiettivo — il profitto.
Un sistema radicato, efficiente e invisibile, capace di imitare perfettamente l’apparenza di un’attività regolare.
Dopo mesi di pedinamenti, intercettazioni e analisi dei flussi di merce, gli investigatori del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria e della Compagnia Carabinieri di Venaria Reale sono riusciti a ricostruire i tasselli del mosaico: cinque opifici clandestini dislocati tra i quartieri torinesi di Madonna di Campagna, Barca e Rebaudengo, e nei comuni di Caselle Torinese e Venaria Reale.
Accanto a questi, due depositi dove venivano conservati tonnellate di tabacco e milioni di pacchetti di sigarette pronti per essere immessi sul mercato nero.
Le immagini dell’irruzione, raccontano i militari, sembravano tratte da un film. Dietro porte metalliche e insegne innocue, si aprivano veri e propri stabilimenti industriali, dotati di linee produttive automatizzate, sistemi di confezionamento ad alta velocità, apparati tecnologici e gruppi elettrogeni per evitare che i consumi elettrici potessero destare sospetti.
Nessuna bolletta anomala, nessun segnale visibile. Solo la puzza acre del tabacco e il frastuono dei macchinari coperto dal rumore delle strade.
La portata della produzione è impressionante: ogni linea era in grado di fabbricare 48 mila pacchetti di sigarette al giorno. Gli inquirenti stimano che nel periodo di attività clandestina siano stati prodotti almeno 35 milioni di pacchetti, pari a 700 tonnellate di merce illegale, con un valore sul mercato nero superiore ai 175 milioni di euro.
Un affare colossale, capace di generare anche un’evasione di accise per 112 milioni di euro e IVA per altri 28 milioni.
Le sigarette, confezionate in pacchetti apparentemente perfetti, riportavano marchi falsificati di note multinazionali. Nulla lasciava intendere che fossero il frutto di un traffico di contrabbando organizzato in modo industriale e alimentato da tabacco di provenienza extraeuropea, trasportato e lavorato senza alcuna garanzia sanitaria.
Ma la vera scoperta non è stata solo economica. È stata umana — e drammatica.
All’interno dei capannoni, i militari hanno trovato lavoratori provenienti da Paesi dell’Est Europa, costretti a vivere e dormire lì dentro. Sfruttati, isolati, privati della libertà, rinchiusi per settimane senza possibilità di uscire.
Le finestre erano oscurate, gli ambienti illuminati solo da lampade artificiali. Gli alloggi erano brande improvvisate accanto ai macchinari, in mezzo alla polvere e al fumo.
Un contesto che gli inquirenti non esitano a definire di “riduzione in schiavitù”: turni estenuanti, nessun contratto, nessuna sicurezza, nessuna dignità.
Secondo le prime ricostruzioni, i lavoratori venivano reclutati nei Paesi d’origine con la promessa di un impiego in Italia, per poi essere trasferiti e rinchiusi nei siti produttivi. Ogni movimento era controllato, ogni pausa cronometrata.
I guadagni andavano interamente ai caporali e agli organizzatori del traffico, che avevano costruito un sistema perfetto: catene di montaggio nascoste, logistica indipendente, distribuzione illegale su larga scala.
Complessivamente, l’operazione ha portato al sequestro di 230 tonnellate di tabacco, 22 tonnellate di sigarette pronte per la vendita e 538 milioni di componenti di produzione — tra filtri, cartine, cartoncini e loghi contraffatti.
Una quantità tale da riempire interi magazzini. La distruzione del materiale, sotto la supervisione dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, è già stata avviata grazie alla collaborazione del Comando Provinciale dei Vigili del Fuocoe della Città Metropolitana di Torino.
Otto persone, tutte di nazionalità ucraina, rumena e moldava, sono state arrestate in flagranza di reato. Ma gli inquirenti ritengono che la rete sia ben più ampia, con diramazioni internazionali ancora da accertare.
Per questo la Procura di Torino sta valutando il coinvolgimento della Procura Europea (EPPO), al fine di approfondire i profili di criminalità transnazionale e i possibili collegamenti con i canali di contrabbando che attraversano l’Europa orientale.
Dietro il successo dell’operazione c’è una sinergia rara tra forze dell’ordine, costruita sulla fiducia reciproca e sulla condivisione di informazioni. La Guardia di Finanza, con le sue competenze in materia economica e doganale, e l’Arma dei Carabinieri, con il controllo capillare del territorio, hanno unito forze e specialità per colpire non solo il traffico di sigarette, ma anche le sue radici criminali e sociali.
Come sottolineano gli investigatori, «è stata un’azione corale, lunga, silenziosa e complessa. Ma necessaria per colpire un sistema che distrugge non solo l’economia, ma la dignità delle persone».
L’inchiesta “Chain Smoking” svela così il volto nascosto di una metropoli: quello in cui le fabbriche non chiudono mai, ma producono illegalità e sfruttamento.
Capannoni che fingono di essere aziende, uomini che diventano ingranaggi, sigarette che sembrano autentiche ma nascono dal crimine.
E se il fumo fa male, questa volta ha bruciato molto di più che la salute dei consumatori: ha bruciato vite, diritti e giustizia.
Un monito, per Torino e non solo, su quanto la globalizzazione del profitto possa trasformarsi in una catena — una vera chain smoking — che soffoca chi ne è intrappolato.
La Procura della Repubblica di Torino ricorda infine che le indagini sono ancora in corso e che gli indagati non possono essere considerati colpevoli fino a eventuale sentenza definitiva di condanna.
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