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Lo stiletto di Clio
08 Aprile 2024 - 07:00
IN FOTO Le donne in attesa di votare, una scena ricorrente nell’Italia del dopoguerra
Il diritto di voto alle donne italiane fu riconosciuto col decreto legislativo luogotenenziale numero 23 del 1° febbraio 1945, altrimenti noto come decreto De Gasperi-Togliatti. Lo firmò il principe Umberto di Savoia a cui il re Vittorio Emanuele III aveva trasmesso i poteri, pur non abdicando formalmente. La fine della seconda guerra mondiale si approssimava, ma i tedeschi ancora resistevano sulla Linea gotica. L’Italia centro-meridionale era occupata dagli Alleati, con un governo espresso dai partiti del Cln, il Comitato di liberazione nazionale. Al Nord sopravviveva la Repubblica sociale, ultimo simulacro dello Stato fascista. Aspettative di rinascita dell’Italia, in un nuovo clima di pace, libertà e giustizia, erano forti ovunque.
Purtroppo sulla questione del voto femminile si deve constatare che la memoria, moloc imperante in tempo di crisi della coscienza storica, continua a giocare brutti scherzi. È convincimento diffuso, infatti, che le donne si recarono alle urne per la prima volta in occasione del referendum istituzionale Monarchia-Repubblica del 2 giugno 1946. In realtà, nel marzo precedente, buona parte degli italiani fu chiamata al voto per scegliere gli amministratori locali. Si trattò di una consultazione importante al fine di accertare il grado di consenso dei diversi partiti politici, sino ad allora rappresentati in modo paritetico nel Cln.
I cittadini di Settimo Torinese, ad esempio, andarono alle urne il 17 marzo 1946. Due principali liste si contendevano il consenso degli elettori e delle elettrici: la socialcomunista (nel cui simbolo non figuravano la falce e il martello, ma un’incudine, con libro, vanga e covone di grano, a simboleggiare il lavoro) e la democristiana (con lo scudo crociato). Alla competizione partecipavano anche liberali, azionisti moderati, repubblicani e indipendenti d’ispirazione laica, tutti insieme in una lista contrassegnata da tre spighe.
A Settimo, non diversamente da altre località, la campagna elettorale assunse toni assai aspri. Dalle pagine del proprio bollettino, il prevosto Luigi Paviolo, benemerito della lotta di liberazione, richiamò i parrocchiani al dovere di recarsi alle urne «perché le idee si combattono con altre idee migliori, e […] tutti […] sono obbligati in coscienza a dare il voto». «S’intende – aggiunse – a coloro che, per condotta e programmi, danno affidamento di rispettare, in teoria ed in pratica, i sovrani ed inalienabili diritti di Dio, della religione, delle coscienze». Il quotidiano comunista «L’Unità» replicò pubblicando la fotografia di un cartello esposto proprio a Settimo Torinese il giorno delle elezioni. Vi si leggeva: «Donne elettrici, attente al peccato mortale e all’inferno!».
Va ancora rilevato che la fretta di rispondere alle attese delle donne si rivelò cattiva consigliera. Infatti, introducendo il pieno suffragio universale, obiettivo di tante lotte per l’emancipazione femminile, il decreto De Gasperi-Togliatti tacque sul diritto delle donne a essere elette. A queste ultime, in altri termini, si riconobbe il diritto all’elettorato attivo, ma non a quello passivo: le donne potevano votare, ma non candidarsi. Fu una dimenticanza a cui pose rimedio il decreto numero 74 del 10 marzo 1946, essendo ormai imminente la consultazione per i comuni. Naturalmente nessuna donna di Settimo fece in tempo a candidarsi.
Alle urne, il 17 marzo, si recò il novanta per cento dei settimesi. Nonostante i dubbi della sinistra sull’orientamento del voto femminile, la lista socialcomunista ottenne poco meno di 4 mila voti (63,5 per cento dei suffragi), contro i 2 mila della Democrazia cristiana (32,5 per cento) e i 240 dei liberali (3,9). La mattina del 31 marzo il socialista Luigi Raspini fu eletto sindaco. Agli uomini e anche alle signore piacendo.
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