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La nazionale italiana di pallavolo femminile è campione del mondo: battuta la Turchia (VIDEO)

Un trionfo costruito su muro, carattere e gestione dei momenti: l’Italvolley chiude un biennio perfetto

Non è “solo” un titolo. È la fotografia di un'impresa che nessuna sbavatura può scalfire. A Bangkok, nella finale dei Mondiali femminili 2025, le azzurre di Julio Velasco battono la Turchia 3-2 e riportano in Italia un trofeo che mancava dal 2002. È il tassello conclusivo di un biennio irripetibile: due Nations League (2024 e 2025), l’oro olimpico di Parigi 2024 e ora la corona iridata. E, come se non bastasse, la striscia che definisce meglio di qualsiasi aggettivo questo gruppo: “36 vittorie consecutive” nelle gare ufficiali.

La finale è una montagna russa emotiva e tecnica. Il primo set (25-23) dice Italia, il secondo (13-25) rilancia con forza la Turchia di Daniele Santarelli, sospinta da una Vargas straripante. Il terzo parziale (26-24) è una corda tesa su cui le azzurre camminano con lucidità: lì si vede la differenza tra chi conosce il peso dei dettagli e chi li subisce. Il quarto (19-25) rimette tutto in parità. Poi il tie-break: quando la pressione diventa rumore di fondo, l’Italia alza il volume del proprio muro, incastra le letture di De Gennaro, trova continuità in Orro e verticalità in Egonu e Sylla. Il punto del “15-8” fa esplodere l’onda azzurra: braccia al cielo, abbracci, lacrime buone. Campionesse del mondo.

Il racconto tattico è la chiave per capire perché. Velasco disegna una squadra che non è mai prigioniera del copione. L’avvio è prudente, misura gli angoli di ricezione, calibra l’altezza dei primi tempi. Nel momento di massima sofferenza — l’inerzia turca del secondo set — la panchina non cerca scuse: sistema la battuta, riduce gli errori gratuiti, accende la correlazione muro-difesa fino a trasformarla in differenziale. In parallelo, la gestione delle transizioni corte: Orro azzera le letture avversarie accelerando su palla alta e scegliendo tempi “sporchi” che rompono la postura del muro turco. È qui che l’Italia cambia l’aria della finale.

I nomi, stavolta, raccontano più dei numeri. Paola Egonu è la verticalità che piega la diagonale: attacca in salita, ma soprattutto sceglie quando non forzare, “sporca” il muro, si prende punti pesanti senza lasciare briciole all’avversaria. Miriam Sylla è il temperamento che raddrizza gli scambi lunghi, rimette palla in gioco, carica la seconda linea. Monica De Gennaro allunga il campo: un passo in più, una lettura in più, un’alzata di emergenza che vale mezza costruzione. Anna Danesi, capitano, tiene insieme il gruppo e la rete: quando la tensione sale, il suo tocco corto e il timing di lettura sui centrali turchi fanno la differenza. Fahr e Nervini danno peso e continuità: Nervini è scintilla nel primo set, Fahr firma i muri che indirizzano il quinto.

Dall’altra parte, la Turchia recita il ruolo che le compete: organizzata, fisica, con una Vargas che sposta l’asse di ogni scambio. Ma quando la finale diventa un affare di nervi e sistemi, le azzurre hanno più corde da pizzicare: in contrattacco sono pazienti, in ricostruzione riducono il margine di errore, in battuta tirano la coperta dove fa più freddo. E quando il palleggio turco prova ad alzare la palla per uscire dal traffico, il muro italiano occupa spazio e tempo fino a chiudere le linee utili. “15-8” è la somma di tutto questo: una cifra, certo, ma soprattutto un metodo.

Il merito di Velasco è anche culturale. Ha unito generazioni, riscritto alcune abitudini, spostato l’attenzione dal singolo al sistema. Con lui la Nazionale è tornata a essere una squadra-programma: identità chiara, responsabilità diffuse, panchina che entra, sbaglia, corregge e cresce. Il risultato è un gruppo che non si spaventa quando perde un set “male” come il secondo: metabolizza, aggiusta, riparte. La semifinale vinta 3-2 contro il Brasile era già un trailer: la finale ne è il film intero.

Il dato storico amplia la portata dell’impresa. L’Italia torna campione del mondo a 23 anni da Berlino 2002 e lo fa da campione olimpico in carica, impresa che posiziona questa generazione in un luogo raro: quello delle squadre che non smettono di vincere quando hanno già vinto tutto. In Thailandia, le azzurre chiudono il torneo con 7 vittorie su 7 e un’identità che non conosce parentele scomode: è l’Italia di Velasco, punto.

I dettagli contano anche fuori dal campo. La cartolina finale è il podio: coppa in mano, medaglie d’oro al collo, bandiere tricolori come corridoio visivo di un ciclo che non chiede didascalie. E intanto il calendario scandisce il rientro: capitan Danesi e compagne sono attese a Malpensa lunedì 8 settembre alle 14:15. Sarà il momento dell’abbraccio della città e del Paese: un ritorno che sa di restituzione, perché questa squadra, nell’arco di 15 mesi, ha dato all’Italia il massimo possibile.

Il resto è eredità. Un gruppo che non ha bisogno di superlativi perché ha imparato a fare del muro una sentenza e della pazienza un’arma. Una palleggiatrice che sa ascoltare la partita. Una opposta che trasforma la pressione in geometria. Un libero che allunga il futuro di ogni pallone. Una panchina che non è un altrove, ma una parte del composito presente. E un CT che alla fine, più che vincere, convince: che si può dominare il volley mondiale con un’idea che mette sistema e disciplina accanto al talento.

È per questo che il “15-8” del tie-break non è solo il punteggio che consegna la coppa. È la firma sotto un’opera collettiva. L’Italia torna sul tetto del mondo e, guardandola da vicino, sembra un luogo naturale.

Julio Velasco, allenatore

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