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Il Po ovvero la paura dell’acqua

Le alluvioni a Settimo, Chivasso, Brandizzo...

IN FOTO L’alluvione del 1962 a Brandizzo

IN FOTO L’alluvione del 1962 a Brandizzo

Le alluvioni sono simili in ogni parte del mondo. La piena di un fiume significa l’onnipresenza di un avversario che risveglia solidarietà o indifferenza nelle forme più semplici e immediate, terrori ancestrali, paure mai completamente rimosse dal profondo dell’animo, perché l’acqua, fra tutti gli elementi, è quello su cui gli uomini sembrano avere meno potere. A salire inesorabilmente, ora dopo ora, è ben altro che l’inondazione: è il senso della morte. Nella migliore delle ipotesi si fa strada la consapevolezza che l’odore della propria casa, una volta ritiratesi le acque, non sarà più lo stesso.

Un tempo, a Settimo Torinese, ma anche a San Mauro, Brandizzo e Chivasso, il Po cagionava danni incommensurabili, a riprova che davvero era «il più rovinoso di tutti i fiumi», come afferma lo storico e letterato Emanuele Tesauro nella «Historia dell’augusta città di Torino» (1679). Assolutamente privo di argini, senza un alveo ben definito, tendeva a straripare, riversandosi nei «gorreti», per poi invadere prati, campi e boschi. La gente teneva d’occhio il livello della piene che, nel volgere di breve tempo, potevano travolgere le case e mettere in pericolo la vita delle persone.

Ai Mezzi di Gassino (dal 1958, Mezzi di Settimo), ingenti danni produssero le due alluvioni autunnali del 1901. «È un ben triste ricordo quello che ci lascia questo primo autunno del nuovo secolo», commentò un giornalista, riferendosi agli effetti delle piogge torrenziali e delle inondazioni che devastarono, quell’anno, mezzo Piemonte. Nei Mezzi – stando alla cronache – le acque del Po «dilagarono irruenti e ruinose per la campagna, […] scavando buche fonde, danneggiando la strada comunale, esportando ponti e palancole, gettando nella più squallida nudità terreni prima ubertosi».

Più precisamente, la quarta settimana di settembre, dopo giorni di pioggia battente, il rio Freidano rigurgitò in corrispondenza della chiavica mediante la quale s’immetteva nel fiume. Rotto l’argine, la corrente del rivo poté defluire con tutta libertà senza sommergere la parte bassa dell’abitato di Settimo. Però le acque del Po trovarono sfogo attraverso la rotta, «incanalandosi per una depressione della campagna, formando temporaneamente un braccio nuovo di fiume» e «isolando completamente la estesa zona […] dei Mezzi […], al cui soccorso si dovette accorrere durante la piena», come scrisse il prefetto di Torino nel novembre dello stesso anno. Il «braccio nuovo di fiume» altro non era che la Sturella, cioè un antico alveo del Po.

In balia delle acque, i borghigiani vissero ore di paura e sgomento. La Prefettura mise in allarme il Genio civile, i carabinieri e l’esercito «per invio soccorsi e provvedimenti necessari». Ma il cattivo tempo ostacolava le operazioni di salvataggio. «Domattina partiranno barche e soldati», telegrafò il prefetto dopo un sopralluogo dei militari. Più tardi Francesco Bovio, il sindaco di Settimo, comunicò: «Tempo migliorato permette operare completo salvataggio senza bisogno di altri soccorsi».

All’inizio di ottobre, in seguito a ulteriori piogge, i Mezzi furono nuovamente sommersi. La Polveriera Viriglio, «dove ancora stavano lavorando soldati del Genio, guardie di dogana e di città», subì i danni maggiori, quantificati in oltre centomila lire dell’epoca: «le acque mugghianti e limacciose inondarono» gli edifici «per una altezza di circa tre metri, asportando tettoie, casa, palizzate, legnami [e] polveri», si legge in una cronaca dell’epoca. Poiché l’inondazione avvenne di notte, i mezzesi furono colti di sorpresa nel sonno e «dovettero fuggire come si trovavano». Riferì un giornalista: «Fu una vera fortuna se non si ebbero a lamentare disgrazie».

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