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Lo stiletto di Clio

Come andò che l’Oréal si trasferì a Settimo

È ancora da scrivere la storia dell’industria a Settimo Torinese

Come andò che l’Oréal si trasferì a Settimo

È ancora da scrivere la storia dell’industria a Settimo Torinese durante la seconda metà del ventesimo secolo. Indubbiamente, un ruolo importante vi ha svolto l’Oréal, fondata all’inizio del Novecento dal giovane chimico Eugène Schueller. La decisione di trasferire lo stabilimento torinese a Settimo risale al 1957. Si trattava di accorpare in una grande struttura i reparti di produzione, gli uffici e i magazzini, rispettivamente situati in corso Svizzera, via Garibaldi e corso Grosseto, tanto più che la vecchia fabbrica non consentiva quell’espansione orizzontale che si riteneva indispensabile per introdurre «tecnologie modernissime» nei cicli produttivi.

IN FOTO L’architetto Nino Rosani, progettista dell’Oréal

L’azienda scelse Settimo per i vantaggi derivanti dalla vicinanza dell’autostrada Torino-Milano, scartando un’ampia area offerta a parità di prezzo nel limitrofo territorio di San Mauro. Scriverà il geografo francese Pierre Gabert (1927-2022), all’epoca «maître de conférences» presso l’Università di Aix-en-Provence, futuro cittadino onorario di Torino: «La presenza, inattesa, di una fabbrica di prodotti di bellezza come l’Oréal si spiega più per l’eccellente pubblicità che essa trae dalla sua situazione tra le due autostrade che per quella di una manodopera femminile abbondante e della vicinanza a fabbriche chimiche».

La licenza edilizia per uno «stabilimento industriale con annessi uffici e servizi assistenziali» lungo la strada Cebrosa, nei pressi delle cascine Pramolle e Benedetta, fu concessa il 14 ottobre 1958. «Riusciranno i profumi del nuovo stabilimento Oréal in costruzione alla periferia di Settimo ad annullare gli odori poco gradevoli della Farmitalia?», s’interrogò ironico un periodico locale.

Costruita secondo i disegni dell’architetto Nino Rosani (1909-2000) che poi progetterà l’ardita struttura a ponte del palazzo Lancia di Torino, la nuova fabbrica fu inaugurata il 31 maggio 1960 alla presenza di numerose autorità francesi, fra cui Gaston Palewski, ambasciatore a Roma, ex ministro di Edgar Faure, e André Bettencourt, deputato all’Assemblée Nationale, già segretario di Stato alla presidenza del consiglio durante il governo di Pierre Mendès-France (1954-1955), nonché marito di Liliane Schueller, la figlia di Eugéne. Da Torino, a impartire la benedizione, giunse il cardinale Maurilio Fossati.

Il periodico «Il Cittadino Settimese» darà rilievo al fatto che la fabbrica, sorta con «celerità sorprendente», occupava circa mille persone, in maggioranza donne che percepivano «salari elevati, pur facendo un numero limitato di ore ed essendo occupate in lavori leggeri» («hanno quasi sempre due giornate complete di libertà – sabato e domenica – durante le quali possono attendere alle maggiori cure settimanali della casa»).

Invece Domenico Garbarino (Premio Saint-Vincent per il giornalismo nel 1957) sarà attratto dalla «esemplare modernità» degli impianti in funzione nello stabilimento di Settimo: «In questo settore tutto è automatico, e si può assistere al ciclo completo della lavorazione del prodotto senza mai vedere il prodotto stesso, salvo le materie prime che entrano nella macchina e la polvere che ne esce, già incapsulata nelle apposite bustine di plastica».

A dire il vero, la realtà era meno rosea di quanto non si tendesse a far apparire. Nel 1969 «Il Cittadino» stesso darà voce alle lavoratrici impegnate in una dura vertenza con la direzione aziendale. «Noi – dichiareranno – lavoriamo per la bellezza della donna: ma non tutti sanno che cosa c’è dietro l’allettante facciata dei profumi, delle lacche, dei rossetti, degli smalti che ogni giorno escono dalle linee dello stabilimento di Settimo». «Il quadro che ci viene delineato – noterà il cronista – è oltremodo significativo e parla un linguaggio eloquente […] di ritmi forsennati, di integrità fisica esposta ad un rischio continuo, di retribuzioni inadeguate, di qualificazioni professionali mortificate».

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