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05 Maggio 2023 - 15:50
NEL RIQUADRO 1805, un barbiere alle prese col salasso di un paziente
Due medici, due chirurghi o cerusici e un flebotomo esercitavano in Settimo Torinese nei primi decenni del diciannovesimo secolo. Ancora molto netta, all’epoca, era la distinzione fra medicina e chirurgia. Il medico aveva piena padronanza delle nozioni scientifiche, conosceva gli autori classici (Ippocrate, Galeno, Celso, ecc.), formulava diagnosi e prescriveva terapie per ogni tipo di affezione e infermità. Il cerusico eseguiva interventi chirurgici, riduceva fratture, estraeva denti e praticava salassi. Talvolta possedeva una certa competenza dottrinale, per lo più acquisita in seguito a una lunga pratica della professione. Ciononostante, la sua attività veniva classificata fra quelle che non richiedevano particolari cognizioni scientifiche, reputandosi sufficiente una buona manualità. A un livello inferiore rispetto al chirurgo si collocava il flebotomo, la cui opera era limitata alla medicazione delle ferite e all’applicazione dei preparati vescicanti e delle sanguisughe.
Non sempre i rapporti fra gli operatori sanitari furono improntati a reciproca stima, specie nelle piccole comunità di provincia dove allignavano invidie e rivalità professionali. «Il signor medico [Gaspare Baldassare] Cuglierero [...] è persona quale attende a’ suoi comodi e con difficoltà suole portarsi di notte tempo ed in cattive stagioni a visitare li ammalati, massime se poveri», dichiarò nel 1757 il cerusico Pietro Giuseppe Canis di Settimo Torinese. Ma il consiglio comunale presieduto dal sindaco Michele Rolla replicò che i fatti denunciati si verificavano assai raramente. Talvolta – fu messo a verbale – «sentendo la relazione della persona che lo richiede», il medico «manda dal chirurgo a ciò si porti a cavarli sangue o far qualche altra operazione indicata dal male, avanti di portarsi lui a visitare l’infermo».
Anni Sessanta del XX secolo, case malsane nel vecchio centro di Settimo Torinese
Curioso è un documento in cui il chirurgo Canis parla di sé e della sua attività fra la gente di Settimo. Egli esercitava la professione nel paese «e suoi contorni da anni quaranta circa [...], con acclamazione popolare per le insigni cure da esso solite farsi anche in alieni territori e massime in quello di Torino, dove li signori medici gl’anno tutta la deferenza e gl’ammalati tutta la confidenza». Mai nessun infermo era morto «o rimasto indisposto od altrimenti pregiudicato» a causa delle «sue operazioni, prescrizioni ed emizioni di sangue». «Senza risparmio», il cerusico si recava a visitare i pazienti, sia di giorno sia di notte, «in stagioni e tempi improprij e per strade disastrose». Considerando gli onorari percepiti, Canis si reputava «onestissimo», tanto più che era solito occuparsi dei poveri «colla stessa puntualità» con cui assisteva le persone in grado di pagargli le parcelle.
I pubblici amministratori riconobbero che le dichiarazioni del chirurgo rispondevano sostanzialmente al vero, benché infiorate di espressioni iperboliche. «Dicono essere informati che qualche medico, e massime uno di quelli di Volpiano, ha molta deferenza, e molti delli ammalati hanno somma confidenza in detto signor Canis», osservarono i consiglieri.
Da un punto di vista generale, la popolazione di Settimo veniva giudicata «assai robusta».
Da un punto di vista generale, la popolazione di Settimo veniva giudicata «assai robusta». Così, per lo meno, scrissero gli amministratori locali all’abate Goffredo Casalis durante la prima metà dell’Ottocento. Lo stesso giudizio fu accolto qualche decennio più tardi da Antonino Bertolotti il quale, tuttavia, rilevò che «l’aria, una volta, non [era] tanto sana per li paduli» (ossia le paludi). Gli acquitrini a cui si riferiva il corografo canavesano occupavano la parte meridionale del territorio, fra l’abitato e la strada di San Mauro Torinese, sino alla cappella campestre di San Bernardino da Siena. Le autorità sanitarie erano fermamente convinte che le paludi cagionassero «febbri terzane e malattie pericolose», come dichiarò il sindaco Giuseppe Varetto nel 1822. «Quest’acqua stagnante dà luogo ad esalazioni nocive alla salute della popolazione che abita il prossimo quartiere del paese», si legge in un documento del 1838. Sette anni più tardi, quando il Comune intraprese la bonifica degli acquitrini, il problema delle «mefitiche esalazioni» e delle conseguenti febbri fu finalmente risolto.
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