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Pagine di storia
03 Febbraio 2024 - 09:59
pepita d'oro
Quando si affrontano personaggi o avvenimenti che ci riconducono a secoli ormai lontani, diventa spesso difficile scindere la verità storica, sostenuta da documenti e testimonianze, dalla verità della tradizione orale, in cui a far fede sono fonti non sempre verificabili; se poi si parte proprio dalla tradizione per cercarne i fondamenti storici occorre sperare in un colpo di fortuna per non rischiare di perdersi «cammin facendo».
Nel caso del personaggio di cui cercherò di raccontarvi qualche cosa, la fortuna mi è stata molto amica.
Ma andiamo con ordine.
* * *
Una ventina di anni fa, o forse anche di più, nel territorio di Pianrastello, borgata di Pont verso la valle Soana, si dovette far brillare un masso che rischiava di precipitare sulle case sottostanti: il masso in questione era da tutti conosciuto come la roca Gipoyra, ma pochi conoscevano l’origine di tale toponimo; la curiosità mi portò ad indagare, però le notizie che raccolsi erano ben misere e tutte prive di documentazione.
Fu in quel frangente che ebbi modo di ascoltare il racconto di un’anziana signora che riferiva di una leggenda, a lei raccontata dalla sua bisnonna, incentrata su di un alchimista, vissuto alcuni secoli prima, che avrebbe avuto sotto quel masso la sua grotta alchemica e che avrebbe trovato lì la morte lasciando al masso il suo nome.
NEL RIQUADRO Particolare di una pagina del catasto, riferito all’anno 1700, nel quale compare il riferimento a Gepoyra («Nella Regione di Gipoyra …»), sono indicate le proprietà con le relative coerenze.
Liborio de Gepoyra era giunto a Pianrastello dopo un lungo vagabondare; accusato della morte del suo maestro, un alchimista che operava alla corte dei Savoia, era braccato dalle guardie ducali alle quali si era sottratto con l’aiuto di un monaco che, fattogli indossare un saio, lo aveva portato con sé in un piccolo convento della valle di Forzo dove era rimasto nascosto per alcuni anni.
Con l’aiuto del monaco, che per problemi personali aveva a sua volta la necessità di tenersi lontano dalla civiltà, aveva imparato il latino e perfezionato le sue conoscenze alchemiche fino a sentirsi pronto ad affrontare esperimenti importanti; alla morte del monaco aveva abbandonato il convento ed era sceso a valle chiedendo asilo ai frati del convento di Pianrastello.
Successivamente aveva acquistato un appezzamento molto vasto, la Cumba d’l Brèch, e si era costruita una piccola abitazione; all’interno del suo appezzamento vi erano alcune grotte naturali che, con un paziente lavoro, aveva trasformato in laboratorio alchemico; le carbonaie molto numerose nell’intera zona circostante gli avevano fornito il materiale per alimentare il fuoco, un piccolo ruscello l’indispensabile acqua, e le rocce la materia prima per i suoi esperimenti: ottenere l’oro.
Purtroppo qualcosa era andato storto durante uno dei suoi tentativi ed il povero Liborio era rimasto sepolto da una scarica di massi che, staccatisi dalla montagna in seguito all’esplosione del laboratorio, avevano ostruito completamente l’ingresso delle grotte. Gli abitanti che avevano assistito al disastro e per molti anni ne avevano mantenuto vivo il tremendo ricordo, parlando del luogo dell’esplosione e del grande masso che era precipitato, avevano cominciato a chiamarlo la roca ‘d Gepoyra, e il toponimo era rimasto legato al masso anche nei secoli successivi.
Che cosa poteva esserci di vero in questa leggenda a parte il toponimo della località e alcuni dettagli (le grotte, le carbonaie ecc…)? Dal momento che le prime ricerche erano state infruttuose poiché non avevo punti di riferimento temporali per tentare una qualche ricerca d’archivio, finii per accantonare il tutto fino a dimenticarmene; poi…
NEL RIQUADRO Antica stampa raffigurante un alchimista intento ai suoi esperimenti: con un piccolo mantice alimenta il fuoco sul quale è posto un alambicco. I tentativi di tramutare i metalli in oro o di scoprire l’elisir di lunga vita, ricorrendo ai più disparati esperimenti, sono praticati dall’uomo da millenni.
Un giorno mi capitò fra le mani un fascio di carte, discretamente malconce; il proprietario, conoscendo la mia passione per «quelle cartacce», per scrupolo mi aveva chiesto di esaminarle prima di bruciarle: si trattava di documenti relativi a compravendite di terreni e case effettuate fra il 1724 e il 1836 e di atti di divisione di alcune proprietà della famiglia. Leggendo uno di questi atti trovai un’informazione che fece scattare in me un interesse immediato: si faceva riferimento ad un «Instrumento» del 1678 stipulato da tal Genesio de Gepoyra che aveva venduto una «pezza di boscho» in località Piani di Rastelli; i De Gepoyra erano dunque esistiti!
Avendo un riferimento temporale potevo riprendere le ricerche d’archivio. Dai registri dei consegnamenti e dai primi catasti ho avuto la conferma che i De Gepoyra erano vissuti a Pont dalla metà del Cinquecento alla fine del Seicento. per poi scomparire improvvisamente, proprio a Piani di Rastelli (come si chiamava allora l’attuale Pianrastello). Non essendo un cognome «nostrano» era fondamentale scoprirne la provenienza: qualche ricerca e un po’ di fortuna mi hanno permesso di appurare che la famiglia (almeno come cognome) era originaria della Provenza e che apparteneva ad una comunità catara.
Quali i legami fra Liborio e Genesio? Dalle scarne notizie recuperate Liborio de Gepoyra sarebbe vissuto fra la fine del 1500 e la prima metà del 1600; la famiglia, costretta a lasciare il territorio d’origine, la Provenza, forse in seguito alle persecuzioni religiose, sarebbe giunta dalla Savoia in Piemonte; non è da escludere che fossero a servizio dei Savoia e che li abbiano seguiti quando venne spostata la corte da Chambéry a Torino.
Giuditta Dembech, giornalista e scrittrice, ebbe a dire: «Gli itinerari alla ricerca dell’imponderabile, non sono tutti visibili. Nel sottosuolo di Torino esistono da sempre le grotte alchemiche, sorvegliatissimi luoghi di potere in cui gli adepti possono intervenire sulla materia, sul tempo, sulle coincidenze: oggi le chiameremmo Portali interdimensionali».
La presenza in Torino di grotte alchemiche, che si estendono sotto il centro storico fra Palazzo Reale, Palazzo Madama e Piazza Castello fino al Po, è storia nota. Gli ingressi, rigorosamente segreti, sarebbero posizionati nei sotterranei di Palazzo Madama, nei giardini di Palazzo Reale (accanto alla fontana) e nella cripta della chiesa dell’Annunziata di via Po. Secondo la tradizione esoterica, proprio nella Terza Grotta Apolonnio di Tyrana avrebbe nascosto nel 93 d.C. la pietra filosofale dotata di straordinarie proprietà: elisir di lunga vita; conoscenza del bene e del male, del passato e del futuro; possibilità di trasformare in oro tutti i metalli meno nobili.
Le grotte alchemiche di Torino sarebbero state frequentate da personaggi importanti del mondo esoterico, da Paracelso a Cagliostro, da Nostradamus al Conte di Saint Germain; pure alcuni appartenenti della famiglia Savoia erano attratti dall’alchimia: Emanuele Filiberto si dilettava negli esperimenti, Margherita di Valois era estimatrice di Nostradamus, Maria Cristina di Francia non disdegnava le arti esoteriche.
In questo contesto la figura di Liborio trova una sua collocazione: essere alchimista o aiutante di un maestro in arti esoteriche era a quel tempo possibile, specie per un ragazzo cresciuto a corte come potrebbe essere stato per il nostro.
IN FOTO La balma dal lüf. Una delle tante balme che si incontrano nella zona di Pianrastello, sul versante della montagna posto all’imbocco della Valle Soana.
Alchimia significa Ars Regia, cioè Grande Opera o Medicina Dei Tre Regni. In quest’ottica anche la presenza di un monaco nel mondo dell’esoterismo e dell’alchimia non è inusuale: Domenicani e Francescani furono i primi alchimisti medioevali in quanto conoscitori delle proprietà curative dei tre regni della natura. Che un monaco nella Torino di fine Cinquecento potesse essere inviso a qualche potente ecclesiastico e avesse bisogno di «sparire» per un po’ dalla circolazione è altrettanto plausibile: le lotte per conquistare il potere o per mantenerlo erano magari più nascoste ma non meno cruente che ai giorni nostri.
Liborio, costretto a nascondersi per evitare l’arresto dopo l’accusa di essere l’assassino del suo maestro, con il quale, secondo la leggenda, stava dirigendosi a Vercelli per conferire con il vescovo di quella città, probabilmente si rivolse ad un monaco che conosceva e che, come lui, era pronto a sfidare i pericoli di un viaggio non proprio agevole pur di lasciarsi alle spalle la città.
In quanto al convento situato nella valle di Forzo si sa che fu attivo dal 1636 e che ospitava dei Cappuccini; di quello di Pianrastello non ci sono notizie storiche, tuttavia si ritiene che possa essere stato coevo di quello di Forzo e del Bausano: di questi due restano poche tracce.
Liborio tentò veramente di preparare l’oro nelle grotte di sua proprietà? Sappiamo con certezza che la montagna dell’Arbella fu scossa più volte da fenomeni sismici (e ad uno di questi potrebbe essere legata la caduta dei massi, fra cui la roca Gipoyra); altrettanto certo è che in tutta la zona di Pianrastello vi erano molte piccole fucine dove, per lavorare il metallo, era necessario mantenere acceso il fuoco, e non erano rari incidenti provocati dagli incendi o dalla fuoriuscita del metallo fuso dagli stampi.
Se Liborio sia morto nel tentativo di ottenere l’oro o semplicemente per un infortunio sul lavoro o per una scossa di terremoto non è poi così importante; non lo sapremo mai, a meno che un qualche colpo di fortuna faccia saltar fuori qualche carta rivelatrice!
Testo tratto dalla rivista Canavèis dell’editore Baima e Ronchetti.
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