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15 Novembre 2025 - 14:29
All’alba, quando Torino è ancora avvolta in quella luce lattiginosa che precede il via vai quotidiano, alcune figure compaiono come ombre sulla sommità della stazione di Porta Susa. Si muovono lente, con la prudenza di chi sa che ogni gesto è carico di significato. Hanno imbraghi, caschetti, corde, e soprattutto uno striscione enorme arrotolato tra le mani: un telo che, una volta aperto, scenderà come una lama sulla facciata in vetro della stazione. Il messaggio è semplice, inequivocabile, volutamente provocatorio: “COP2025: 1.5°C di ritardo”. È il grido di Extinction Rebellion, che anche questa volta ha scelto l’azione diretta, simbolica e teatrale per scuotere un’opinione pubblica sempre più assuefatta all’emergenza climatica.
Lo striscione si srotola rapidamente, ben visibile da corso Inghilterra, mentre i pendolari che attraversano la piazza rallentano, alzano lo sguardo, cercano di capire cosa stia accadendo. Sotto, sul marciapiede, un piccolo presidio di attivisti accoglie i passanti. Tengono in mano volantini, parlano con studenti e lavoratori, cercano di spiegare – per l'ennesima volta – che non si tratta di allarmismo, ma di semplice matematica climatica. Tra di loro, però, c’è anche un elemento surreale: una persona travestita da Bianconiglio, quello di Alice nel Paese delle Meraviglie, che periodicamente guarda un orologio e borbotta “È tardi, è tardi”. Una scena che strappa un sorriso amaro: perché di tardi, per gli attivisti, lo è davvero.
E mentre a Torino si apre questo siparietto di protesta, a migliaia di chilometri di distanza, a Belem, nel cuore dell’Amazzonia, si svolge la COP30, l’ennesimo vertice delle Nazioni Unite sul clima. Una conferenza che dovrebbe indicare la rotta, definire strategie, stabilire obiettivi concreti per non superare la soglia degli 1,5 °C di riscaldamento globale. Ma ormai l’obiettivo sembra più un ricordo che un traguardo realistico. Gli scienziati lo ripetono da mesi, e i governi lo sanno perfettamente: con gli impegni attuali, il pianeta si dirige dritto verso un aumento di 2,6 °C. Non uno scarto marginale, non una misura tecnica: un salto verso un futuro segnato da eventi estremi, desertificazione, crisi idriche, migrazioni climatiche, città invivibili in estate e sistemi agricoli al limite del collasso.
Non è un caso che Ivan, una delle voci di Extinction Rebellion Torino, nel corso della mattinata non usi giri di parole. “La temperatura media lo scorso anno è stata di 1,55 °C: un evidente fallimento di tutte le politiche climatiche di questi anni. Le conferenze mondiali sono state trasformate da incontri della diplomazia globale in fiere commerciali tenute in petrostati tra i Paesi più autoritari”. Le parole “fiere commerciali” pesano come macigni. Non è solo retorica: secondo i dati ufficiali, alla COP30 sono presenti oltre 1.600 lobbisti delle fonti fossili, più di qualsiasi delegazione nazionale esclusa quella brasiliana. Un numero che rappresenta una sproporzione indecifrabile: come può un summit climatico, nato per abbattere le emissioni, essere dominato proprio da chi quelle emissioni le produce?
Mentre i lobbisti aumentano, alcune delegazioni politiche si defilano. Tra queste, quella italiana. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni non è a Belem. Una scelta che per Ivan non è casuale: “È un disimpegno che riflette la posizione dell’Italia sulle politiche di decarbonizzazione: antiscientifica e ideologica”. I riferimenti sono fin troppo chiari: l’opposizione del governo italiano alla riduzione delle emissioni al 2040 proposta dall’Europa, la battaglia contro le auto elettriche, le resistenze sui piani di decarbonizzazione industriale. E soprattutto, il recente via libera a nuove trivellazioni, con 34 licenze rilasciate per cercare petrolio e gas, come se il mondo fosse ancora quello degli anni ’70 e il clima potesse aspettare.
Intanto, la realtà avanza molto più velocemente della politica. Antonio Guterres, segretario generale dell’ONU, ha dichiarato apertamente che il superamento degli 1,5 °C è inevitabile. Impossibile nascondersi dietro formule diplomatiche: lo ha definito un “fallimento collettivo”. E le conseguenze sono già davanti agli occhi di tutti. Nel 2025, in Europa, 16.500 persone sono morte a causa delle ondate di calore. A Los Angeles, lo scorso gennaio, gli incendi hanno provocato più di 400 vittime. A Valencia, nell’ottobre 2024, una singola alluvione ha ucciso oltre 200 persone. E appena pochi giorni fa, le isole di Jamaica e Cuba sono state devastate dal tornado Melissa, un fenomeno estremo reso più violento dall’aumento della temperatura degli oceani.
Il quadro globale è drammatico, ma quello locale non è molto più confortante. Irene, anche lei attivista di Extinction Rebellion, allarga il discorso: “La Regione continua a investire in settori altamente energivori e impattanti, come grandi opere e piste da sci. Per il 2025 ha stanziato 70 milioni di euro per l’innevamento artificiale”. Una cifra enorme destinata a sostenere un settore che la crisi climatica ha già reso, in molte zone, insostenibile. I cannoni sparaneve, per funzionare, richiedono enormi quantità di acqua ed energia. Acqua prelevata in parte dai 23 bacini artificiali piemontesi dedicati proprio all’innevamento. E intanto in Piemonte ci sono 76 impianti sciistici dismessi perché la neve non cade più come un tempo. Eppure, si continua a investire in un modello turistico che ha i giorni contati.
Sotto lo striscione di Porta Susa, dove il presidio prosegue per tutta la mattina, il clima è una miscela di preoccupazione e determinazione. Gli attivisti parlano con chi si ferma, mostrano grafici, spiegano proiezioni, raccontano quanto stia accadendo nel mondo mentre Torino sembra procedere come se nulla fosse. La voce più dura, però, è quella di Elsa, che prende il megafono a metà mattinata e scandisce parole che fanno voltare molte persone: “Gli impatti della crisi sono sempre più intensi e chi oggi è al governo, in Italia come in Piemonte, ci sta letteralmente conducendo al collasso. Siamo in emergenza, non c’è più tempo per le favole del governo: il momento è adesso, è già tardi”.
È già tardi. Due parole che fanno da filo conduttore all’intera protesta. Le ripete Elsa nel suo intervento. Le ripete il Bianconiglio che continua a guardare l’orologio come se fosse intrappolato in un loop. Le ripete, in fondo, lo striscione che resta appeso sul grande ingresso della stazione, visibile da centinaia di metri.
La scena si dissolve lentamente quando le forze dell’ordine invitano gli attivisti a calare le corde e scendere. Ma il messaggio, quello no, rimane. Rimane negli sguardi dei pendolari, rimane sui social che hanno iniziato a condividere immagini e video, rimane sospeso nell’aria fredda di novembre.
Porta Susa, per qualche ora, è diventata la cornice di un monito semplice e spietato: il tempo non è più una variabile disponibile. E la domanda, inevitabile, ritorna come un eco lungo i binari della stazione: quanto altro dovrà succedere prima che chi governa se ne accorga davvero?
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