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23 Gennaio 2023 - 00:21
Tutto ebbe inizio lo sventurato 10 giugno 1940, quando gli Alpini delle nostre terre furono impegnati in Francia, Albania, Jugoslavia, Grecia; poi nell’estate 1942 nella Russia immensa in appoggio ai tedeschi e allo CSIR italiano già presente laggiù. Preparativi affrettati, sgomento alle partenze delle tradotte che, attraverso la desolazione di Austria e Polonia, approdarono a un altro mondo, sconvolto e sconfinato. Le Divisioni “Cuneense”, “Julia” e “Tridentina” avevano sentito parlare dei monti del Caucaso, invece furono avviate con marce sfiancanti verso le pianure del Don: un fronte di 75 chilometri da presidiare. Insidie già in agosto; a ottobre prima neve, primi congelamenti e attacchi difficili da ricacciare coi vecchi fucili ‘91.
A metà dicembre, azioni russe in profondità; primi cedimenti e rischi d’accerchiamento. A Natale, reparti del “Mondovì”, del “Ceva”, del “Saluzzo” sono sotto attacco, mentre ripiegano i tedeschi che sono con loro. Il 15 gennaio ‘43 poderosi carri armati russi puntano su Rossosch, e il comando deve spostarsi a Postojaly, mentre i duemila uomini rimasti a Rossosch col gen. Martinat vengono cannoneggiati.
La Cuneense e la Julia sono provati negli effettivi da combattimenti e nella ritirata verso nord-est. Poi per tutti avviene il ripiegamento generale il 17 gennaio, in un clima di confusione con ostacoli di autocarri a secco di carburante, rifornimenti impossibili, zaini abbandonati.
La “Cuneense” punta su Popowka nel buio e nel vento gelido: spera di raggiungere Waluiki prima che la strada sia sbarrata. E qui tra il 19 e 20 gennaio 1943 nell’ambito dell’offensiva Ostrogozsk-Rossos, si svolse il più rilevante scontro armato, per reparti impegnati e per numero di caduti, fra le divisioni alpine in ritirata e l’Armata Rossa.
Nella piccola località di Nowo Postojalowka le divisioni Julia e Cuneense, due delle tre unità che componevano il Corpo d’Armata Alpino, giunsero nel pieno della fase di ripiegamento dalle posizioni che occupavano sul fiume Don, dopo lo sfondamento dei sovietici nel settore tenuto dalle truppe tedesche e ungheresi.
Qui le nostre divisioni, già duramente provate dalla fatica, dal freddo e dalla fame, si trovarono a combattere contro un nemico superiore in uomini e armi. Dalle isbe presso il villaggio di Nowo Postojalowka sbucano bocche di cannoni dai colpi micidiali. Strisciando nella neve, gli Alpini raggiungono i margini del paese, poi si lanciano allo scoperto contro i carri. Molti di loro cadono o e vengono catturati.
Inutilmente i comandanti, il colonello Manfredi del “Mondovì”, il generale Battisti e poi il generale Ricagno della “Julia”, chiedono appoggi per tentare d’aprire un varco prima che i russi ricevano rinforzi. Allora le truppe alpine si lanciano in un disperato assalto contro i russi sotto un fuoco intenso. I carri armati russi avanzano implacabili. In testa ai superstiti del “Ceva”, si lanciano contro dei carri armati fucili e bombe a mano, e tutti lottano anche all’arma bianca. I russi si asserragliano nel paese, e gli alpini non passano. Nella neve, morti, feriti, relitti. Allora il generale Battisti ordina al generale Manfredi di bruciare la bandiera del “Mondovì” perché non cada in mano nemica. Con il sopraggiungere della notte la cruenta battaglia si spegne.
La “Cuneense” è più che dimezzata, e riceve l’ordine di “sganciarsi dalla morsa” tentando d’aggirare nel buio il villaggio per puntare su Postojali nella speranza che, intanto, sia stata liberata dalla “Tridentina”. Ma si devono abbandonare feriti e congelati.
I loro gemiti e le loro invocazioni feriscono più delle cannonate. Questa è la battaglia di di Nowo Postojalowka, avvenuta tra il 19 eil 20 gennaio 1943, su questo episodio bellico ecco quanto scrive il Generale Emilio Faldella, nella sua “Storia delle truppe alpine”: “ … quella sanguinosa, disperata battaglia che durò, pressoché ininterrotta, per più di trenta ore ed in cui rifulse il sovrumano e sfortunato valore dei battaglioni e dei gruppi della Julia e della Cuneense, che ne uscirono poco meno che distrutti”. … la più dura, lunga e cruenta fra le molte sostenute dagli alpini, sia in linea sia nel corso del ripiegamento.” Alla fine di 30 ore di combattimenti tra il 19 e il 20 Gennaio si stima che oltre 13.000 alpini sono rimasti sulla neve di Nowo Postolajowka.
La colonna con il grosso delle divisioni “Cuneense” e “Julia” con i relativi comandi e della divisione di fanteria “Vicenza” continuerà a marciare verso Valujki, originale punto d’arrivo previsto dalle direttive senza essere informata che questa è saldamente in mano all’ Armata Rossa.
Ormai sfiancati dopo 12 giorni di marcia e combattimenti , aver percorso circa 200 km in condizioni atmosferiche proibitive, a corto di munizioni e armamento, sovrastati in numero dai russi, la sera del 28 Gennaio gli ultimi sopravvissuti sono costretti alla resa. Pochi sono quelli che in piccoli drappelli riescono a filtrare tra le maglie dei russi e raggiungere dopo altre centinaia di km nella neve nel niente della steppa innevata, le prime ricostituite linee tedesche tutt’ altro che stabili. Più “fortuna” avranno alcuni reparti di retrovia e dei rifornimenti, che attardati dagli attacchi russi durante la marcia verso Postojalvyi, perdono contatto con la loro colonna e si accodano al grosso fiume di sbandati che segue la “Tridentina”, arrivando quindi a Nikolajewka e dove parteciperanno, seppur a ranghi ridotti, alla cruenta battaglia del 26 Gennaio riuscendo così a sfuggire dalla sacca.
Solo un piccolo gruppo di reduci riuscì a tornare a Mondovì, il 13 giugno del ‘43, “accolto da un incessante lancio di fiori” come scrisse il foglio fascista “A noi!”. Ma la retorica ormai non poteva più nascondere l’enormità della tragedia né le responsabilità di chi l’aveva provocata. Il pensiero andava ai caduti e alla sorte dei dispersi: angosce rimaste a lungo senza risposta. E da quel settembre ‘43 una parte dei reduci scelse un nuovo generoso impegno sui monti di casa nella lotta di liberazione dall’occupazione nazifascista. Altre dure esperienze, altri sacrifici da non dimenticare.
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