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Cronaca
26 Novembre 2025 - 09:25
Tre minori abusati per anni dal compagno della madre: la figlia più grande racconta tutto e porta a una condanna devastante
La storia è di quelle che scavano nel profondo, che scavano anche quando si tenta di tenerle lontane. Un intreccio di abusi, omertà domestica, paura e vergogna che si dilata per anni, fino al giorno in cui la verità riesce a perforare quella calma apparente costruita a fatica. È il giorno in cui la figlia maggiore, ormai studentessa di Medicina in un’altra regione, trova il coraggio che non aveva mai avuto e racconta agli altri due fratelli ciò che per anni aveva creduto di essere l’unica a subire. E lì, di colpo, quel dolore prende forma nuova, si moltiplica, diventa comune. Perché anche loro, i due gemelli, oggi maggiorenni, custodivano lo stesso fardello.
Il compagno della madre, un uomo di 56 anni, è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di carcere. Dovrà inoltre pagare 135mila euro di provvisionale all’ex compagna e ai tre ragazzi. Un verdetto arrivato al termine di un processo complesso, segnato da testimonianze, ricordi, traumi ricostruiti pezzo per pezzo. L’imputato, presentatosi in aula, ha ribadito a più riprese la propria innocenza, sottoponendosi anche a interrogatorio. Ma la sentenza è arrivata netta, sostenendo l’attendibilità dei tre giovani.
I magistrati hanno riconosciuto come ogni episodio fosse stato confidato in momenti diversi a tre amici, uno per ciascun ragazzo, figure vicine e credibili, che in aula hanno confermato i racconti ricevuti: toccamenti, palpeggiamenti, tentativi di rapporto consumati in momenti di apparente normalità, come l’ora della buonanotte, una gita in montagna, un’uscita in barca. Una quotidianità tradita proprio dove dovrebbe esserci protezione.
La maggiore, la prima a parlare, aveva tenuto tutto sepolto per anni, convinta che quel male la riguardasse da sola. Quando finalmente trova il coraggio di dirlo alla madre e ai fratelli, scopre che non era affatto l’unica. I gemelli, più piccoli di qualche anno, vivono lo stesso inferno, ciascuno senza sapere dell’altro, ciascuno prigioniero del timore e del senso di colpa. È in quel momento che il silenzio familiare, costruito più come difesa che come omissione, comincia a sgretolarsi.
Per la donna, la madre, è una frana improvvisa. Alcuni episodi – è emerso in aula – sarebbero avvenuti perfino quando lei si trovava in casa, senza mai sospettare nulla. In tribunale ha parlato con difficoltà, piangendo, descrivendo l’improvviso crollo di una fiducia totale che non le aveva mai permesso neppure di immaginare un sospetto.
I tre figli si sono costituiti parte civile, assistiti dall’avvocato Fabrizio Bernardi, mentre la madre ha scelto il legale Alessandro Melano. L’uomo, dal canto suo, ha portato in processi diversi testimoni a sua difesa, tra cui la figlia avuta da una precedente relazione. Lei, come altri, lo ha definito un «uomo e padre modello» – dichiarazione riportata in aula in forma integrale – sostenendo che non abbia mai mostrato comportamenti ambigui, mai un problema con la giustizia, mai una spia d’allarme.

La difesa ha insistito sul ritratto di un individuo incapace di gesti simili, richiamando la sua vita ordinaria, regolare, lontana da qualunque traccia di devianza. A sostegno della posizione dell’imputato è intervenuto anche un consulente di parte, che ha spiegato come, in alcuni casi, possano coesistere per anni una vita pubblicamente normale e una dimensione nascosta, frutto di una dissociazione fra l’aspetto emotivo e quello razionale. Una duplicità possibile, ha sottolineato, anche in assenza di segnali esterni evidenti.
Eppure, le dichiarazioni dei ragazzi hanno resistito a ogni passaggio istruttorio. Ognuno ha raccontato, nei limiti imposti dal dolore, episodi simili, luoghi e circostanze coincidenti, ricordi che – pur provenendo da percorsi differenti – hanno finito per combaciare come tessere di un mosaico. E ognuno aveva parlato a un amico, in tempi e modi diversi, anni prima della denuncia. Un dettaglio considerato decisivo dal giudice nella valutazione complessiva dell’attendibilità.
Per i tre ragazzi, oggi giovani adulti, il processo non è mai stato una scelta di vendetta. È stato qualcosa di più prossimo al bisogno di liberarsi di un’ombra, di chiudere un capitolo doloroso per ricominciare. Sono seguiti per anni in terapia, ognuno seguendo un percorso costruito con specialisti dedicati, cercando di riconquistare un quotidiano che quell’uomo aveva incrinato in modo irreparabile. Una ricostruzione lenta, fatta di passi avanti e ricadute, e che continuerà anche dopo la condanna.
La sentenza non risarcisce l’infanzia o l’adolescenza sottratta, ma restituisce almeno una forma di riconoscimento ufficiale a ciò che hanno raccontato. È un sigillo giudiziario posto su anni di sofferenza taciuta, su una solitudine che si è spezzata solo quando qualcuno ha avuto abbastanza forza da non nascondere più nulla.
La vicenda si chiude qui solo in apparenza, perché un procedimento penale non annulla ciò che è accaduto. Ma sancisce qualcosa di fondamentale: che le loro parole, finalmente ascoltate, sono state ritenute vere. E questo, per loro, significa iniziare davvero a riprendere in mano la propria esistenza.
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