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Cronaca
22 Novembre 2025 - 17:29
Arrestato il “Re dei Maranza”: Don Alì finisce in manette nelle cantine della Barriera di Milano
Ricercato da giorni, nascosto nelle cantine umide e buie di un palazzo alla periferia nord di Torino, quartiere Barriera di Milano. È qui che gli agenti della Squadra Mobile, dopo un’attività di monitoraggio e pedinamento, lo hanno trovato e arrestato. Said Alì, 24 anni, conosciuto online come Don Alì, il sedicente “Re dei Maranza”, è finito in manette venerdì sera su disposizione della procura torinese.
Il giovane influencer, cittadino italiano di origini marocchine, non era più il personaggio spavaldo che compariva nei video pubblicati sui social: nessuna diretta, nessuna provocazione, nessun telefono in mano. Solo il silenzio di chi sa che il cerchio si sta stringendo.
Alì, seguito da oltre duecentomila utenti sulle varie piattaforme, aveva costruito la sua popolarità su contenuti aggressivi, dal tono violento e carico di sfide. Video montati ad arte, battute taglienti, spettacolarizzazione della forza e dell’intimidazione. Ma l’episodio che lo ha portato all’arresto ha varcato la soglia del semplice esibizionismo: non più una posa davanti alla telecamera, bensì atti che la procura definisce “potenzialmente pericolosi e idonei a generare un clima di terrore”.
Tutto inizia a fine ottobre, quando Don Alì e due membri del suo gruppo decidono di tendere un agguato a un insegnante. Lo attendono all’uscita della scuola dove l’uomo era andato a prendere la figlia di tre anni e mezzo. Appena compare, gli si avvicinano, lo insultano, lo accusano di avere maltrattato un alunno. Alì gli si piazza alle spalle e gli rifila uno schiaffo alla nuca. La bambina, terrorizzata, si stringe alle gambe del padre, ignara di essere finita dentro una messinscena costruita per diventare virale.
Nel video, poi pubblicato sui social, il tiktoker rincara la dose. “Maestro, la prossima volta che fai il bullo con un bambino e lo maltratti questo video diventerà pubblico”, gli dice con tono minaccioso. Sostiene che il piccolo maltrattato sia suo nipote. Un’accusa grave, lanciata come se fosse una verità incontestabile. Ma dalle indagini emerge un dato chiaro: nella scuola non c’è traccia di un alunno con quelle caratteristiche. Nessun bambino di origine marocchina corrispondente alla descrizione fornita da Alì. Le sue affermazioni, insomma, non sono supportate da alcun elemento concreto.
Eppure, quel video viene diffuso con didascalie ancora più pesanti: il docente viene etichettato come “pedofilo” e definito la “preda” di un agguato. Un colpo durissimo per la vittima, resa oggetto di un linciaggio mediatico in piena regola. L’insegnante presenta immediatamente denuncia, allegando un certificato medico che attesta uno stato d’ansia provocato dalle intimidazioni e dalla paura per sé e per la figlia.
L’indagine, coordinata dal sostituto procuratore Patrizia Caputo e dal pm Roberto Furlan, porta alla luce anche un ulteriore episodio: l’aggressione dell’11 novembre ai danni della troupe della trasmissione televisiva “Dritto e Rovescio”. I giornalisti erano arrivati in Barriera di Milano per intervistare Don Alì, ma una persona con il volto coperto, armata di mazza chiodata, ha colpito il parabrezza dell’auto della produzione, mandandolo in frantumi. Un gesto evidentemente studiato per intimorire chi cercava di documentare la vicenda.
Intanto, mentre l’attenzione mediatica cresceva, Don Alì continuava a cavalcare l’onda. Ha diffuso estratti di un’intervista rilasciata a un programma televisivo nazionale, ribadendo la sua crociata contro chi “abusa dei bambini” e lanciando nuove minacce, sempre rivolte al docente: “La prossima volta che abusi di bambini finirà molto peggio”. Parole pesantissime, che gli investigatori hanno verificato essere completamente infondate.
Gli agenti della mobile, coordinati dal dirigente Davide Corazzini, seguono ogni traccia: i movimenti del tiktoker, i contatti, i video rimossi e ripubblicati. Scoprono che Alì, resosi conto dell’avvicinarsi delle forze dell’ordine, si è nascosto nelle cantine di un palazzo, aiutato da alcuni amici. Una fuga durata pochi giorni, seguita passo dopo passo fino al blitz conclusivo.
Con lui finiscono nei guai anche i due complici che lo avevano accompagnato davanti alla scuola: un 24enne e un 27enne, ora sottoposti all’obbligo di firma.
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Quella che era nata come l’ennesima provocazione social si è trasformata in un caso giudiziario di rilievo. Non solo per la gravità delle accuse – atti persecutori e diffamazione aggravata, a cui potrebbero aggiungersi altre ipotesi – ma perché riapre un interrogativo più ampio: fino a che punto la spettacolarizzazione della violenza è tollerata finché resta dentro lo schermo? E cosa accade quando dalla fanfara digitale si passa alla realtà, coinvolgendo minori, famiglie, insegnanti e giornalisti?
La procura ha deciso che quel limite è stato superato.
E ora il “Re dei Maranza” dovrà rispondere delle sue azioni non davanti alla telecamera, ma davanti a un giudice.
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