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Cronaca
04 Novembre 2025 - 11:25
												La tragedia sull'Himalaya: il raccontato del pinarolese Valter Perlino, l’unico sopravvissuto
Dormivano, in tenda, a oltre cinquemila metri, sepolti da due metri e mezzo di neve compatta. È la fine della spedizione italiana sul monte Pambari, 6.887 metri, nell’Himalaya nepalese. L’unico sopravvissuto, Valter Perlino, pinerolese, lo racconta con una voce che non riesce a tenere il peso dell’assurdo: i suoi compagni, Stefano Farronato, tecnico forestale di Bassano del Grappa, e Alessandro Caputo, maestro di sci a St. Moritz, sono morti nel sonno, travolti da una nevicata arrivata troppo presto, troppo forte, troppo lunga. «Dormivano, in tenda, ed erano stati sepolti sotto due metri e mezzo di neve compatta. Mentre dormivano, assurdo», dirà poi Perlino.
La loro era una spedizione “pulita”, in perfetto stile classico: base a 4.800 metri, Campo 1 a 5.000, Campo 2 a 5.800, Campo 3 a 6.300. Una progressione lenta, precisa, come si fa quando la montagna non concede errori. L’imprevisto arriva in forma di malore: una trombosi venosa al piede sinistro costringe Perlino a fermarsi e poi a scendere, anticipando i compagni che restano a smontare il campo. Quella scelta, dettata dal dolore, diventa il suo salvacondotto. «Avevamo deciso di tornare insieme, ma io sono partito prima. Non so perché loro abbiano scelto di fermarsi al C1. Forse per stanchezza».

La cronologia del disastro inizia lunedì 27 ottobre, con la prima neve. Era attesa, ma il meteo sbaglia di due giorni. Da quel momento, la montagna si chiude come un coperchio: sei giorni di bufera ininterrotta. Mercoledì 29, Perlino capisce che è finita: «Sono scesi due metri di neve», scrive via InReach Garmin, il dispositivo satellitare. Giovedì 30 l’ultimo contatto radio con i compagni: «Stavano bene, avevano gas e viveri». Poi, il silenzio. Venerdì 31 la tempesta cresce, la tenda del Campo 1 viene isolata.
Lunedì 3 novembre arriva una finestra di bel tempo, e con essa la corsa disperata dei soccorsi. Sul posto un rescue team nepalese, un elicottero con Recco per la ricerca dei dispersi, e due italiani esperti che operano in Himalaya: l’elicotterista Manuel Folini e l’alpinista Michele Cucchi. Perlino è con loro, provato ma lucido. Racconta di ore di attesa, di manovre difficili, di un altimetro che sembra non voler scendere mai. «Abbiamo riposato poco, ma non è stato semplice. Perdiamo due alpinisti esperti».
Poi la scoperta, crudele nella sua immobilità. La tenda è schiacciata, irriconoscibile. Sotto, i corpi di Farronato e Caputo. Dormivano. Nessuna fuga, nessun errore tecnico: solo la montagna che anticipa il suo verdetto. Perlino lo sa, e il suo racconto scivola tra dolore e consapevolezza: «Non siamo degli sprovveduti. La neve ci ha sorpreso due giorni prima di quando era prevista». Due giorni che diventano il confine tra la vita e la morte.
Restano domande sospese: perché la scelta di fermarsi al Campo 1, cosa li ha convinti a non continuare la discesa. Ma nella voce del sopravvissuto non c’è accusa, solo il peso di una lezione antica: l’Himalaya non perdona, e nemmeno l’esperienza basta quando il meteo decide di cambiare le regole. A Pinerolo, Bassano e St. Moritz, tre comunità si raccolgono nel lutto, stringendosi attorno a chi è tornato. Il monte Pambari, intanto, conserva il suo silenzio di ghiaccio. Lassù, a quasi seimilanovecento metri, il tempo si è fermato in una tenda schiacciata dalla neve: e la montagna, ancora una volta, ha vinto.
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