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05 Agosto 2025 - 21:36
I due Ministri
Si apre ufficialmente una nuova fase dell’affaire Almasri, destinata a scuotere gli equilibri tra le forze politiche in Parlamento e a mettere alla prova la tenuta del governo. Il Tribunale dei ministri ha infatti trasmesso alla Camera dei deputati la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di tre pesi massimi dell’esecutivo: il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano e il guardasigilli Carlo Nordio. La questione è ora nelle mani di Montecitorio, che avrà 60 giorni di tempo per votare e decidere se aprire o meno un processo penale nei confronti dei membri del governo coinvolti nell’operazione che ha portato alla scarcerazione e al rimpatrio in Libia del generale Almasri, sospettato di torture e già ricercato dalla Corte penale internazionale.
Un nome, quello del generale, che è diventato simbolo di un caso diplomatico e giudiziario che rischia di trasformarsi in un terremoto politico.
Esclusa dal procedimento la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, per la quale il Tribunale ha già disposto l’archiviazione, ritenendo non sussistenti i presupposti per procedere.
Le contestazioni mosse ai tre membri del governo variano per gravità e profilo giuridico. In comune, per tutti, l’ipotesi di favoreggiamento per non aver consegnato Almasri alla Corte penale internazionale, nonostante su di lui pendesse un mandato d’arresto internazionale per crimini contro l’umanità.
Ma su Piantedosi e Mantovano grava anche un’ulteriore accusa: quella di peculato, per aver utilizzato un aereo di Stato, il Falcon 900, allo scopo di rimpatriare il generale libico, una scelta che – secondo l’accusa – avrebbe rappresentato un uso indebito di risorse pubbliche.
Diversa la posizione del ministro Nordio, che è chiamato a rispondere di omissione di atti d’ufficio: secondo i giudici, avrebbe omesso di chiedere tempestivamente la custodia cautelare del generale libico, come richiesto dalla Corte dell’Aja. Un’omissione che, nelle ricostruzioni degli inquirenti, avrebbe contribuito a rendere possibile la liberazione e l’immediato rimpatrio dell’indagato, sottraendolo così alla giustizia internazionale.
A Montecitorio, la Giunta per le autorizzazioni ha ora circa un mese per esaminare gli atti inviati dal Tribunale dei ministri. Il calendario però non è vincolante e i tempi potrebbero allungarsi. Una volta completato l’esame, gli atti verranno trasmessi all’Aula, che entro altri trenta giorni dovrà esprimersi con un voto. Voto che, secondo le prime indiscrezioni, dovrebbe concludersi con un prevedibile no all’autorizzazione a procedere, blindato dalla maggioranza.
Ma la vicenda non si ferma qui. L’intero caso potrebbe infatti conoscere ulteriori sviluppi sul fronte della giustizia ordinaria, qualora la Procura di Roma decidesse di valutare il comportamento di altri funzionari coinvolti nei passaggi decisionali e operativi della liberazione di Almasri.
Secondo testimonianze già acquisite, un ruolo chiave nello scambio di comunicazioni tra Ministero della Giustizia e Presidenza del Consiglio lo avrebbe avuto Giusi Bartolozzi, capo di gabinetto di via Arenula. Il suo nome emerge in diverse ricostruzioni fornite al Tribunale dei ministri, tra cui quella – particolarmente rilevante – dell’allora capo del Dipartimento per gli Affari di Giustizia, Giovanni Birritteri.
Proprio Birritteri, ascoltato mesi fa dai giudici, avrebbe assunto una posizione critica verso la gestione della vicenda, prendendo pubblicamente le distanze dalle scelte adottate e sottolineando – secondo fonti interne – che alcuni tecnici del Ministero avrebbero addirittura redatto una bozza di nuovo mandato di cattura per consentire la consegna di Almasri ai giudici dell’Aja. Tentativo che sarebbe però rimasto lettera morta.
Da parte sua, Bartolozzi ha presentato una memoria difensiva e documentato la sua versione dei fatti con una mail datata 19 gennaio, nella quale sostiene di essere stata informata da Birritteri solo dell’avvenuto arresto del generale libico, mentre il mandato della Corte penale internazionale – sostiene – non era ancora arrivato. Nessun ritardo volontario, dunque, ma un iter burocratico non ancora formalmente completato.
Quando i giudici del Tribunale dei ministri, a fine maggio, hanno deciso di ascoltare Carlo Nordio, la richiesta ha fatto notizia: si trattava di una mossa che segnava una svolta nelle indagini. Poco dopo, l’avvocata Giulia Bongiorno, che difende tutti gli esponenti del governo coinvolti, ha formalizzato una richiesta di audizione anche per il sottosegretario Mantovano, ritenendo che fosse l’unico in grado di fornire un quadro completo della vicenda, avendo seguito ogni passaggio in prima persona.
Richiesta respinta. Il Tribunale dei ministri ha risposto che riteneva le due posizioni “non fungibili” e ha ribadito l’interesse esclusivo ad ascoltare Nordio, che però non ha mai deposto. Nel frattempo, la difesa ha ottenuto l’accesso agli atti dell’inchiesta, un dossier imponente che potrebbe contenere elementi decisivi in vista del passaggio parlamentare.
La decisione sulla richiesta di autorizzazione a procedere si trasforma ora in una partita tutta politica, che rischia di spaccare il Parlamento tra garantisti e giustizialisti, tra chi difende l’operato del governo in nome della sicurezza nazionale e chi denuncia una grave violazione del diritto internazionale.
Al centro, resta la figura di Almasri, l’uomo dei segreti e delle ombre, il generale libico la cui liberazione rischia ora di trasformarsi in un boomerang giudiziario per l’esecutivo. La Camera, nelle prossime settimane, dovrà assumersi la responsabilità di una scelta destinata a lasciare un segno.
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