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Cronaca
29 Luglio 2025 - 09:27
Un pomeriggio di sangue: uomo entra in un grattacielo e spara
Non ha corso. Non ha gridato. È entrato con calma, armato e pronto a colpire, indossando un giubbotto antiproiettile e con lo sguardo coperto da occhiali scuri. Un fucile d’assalto nella mano destra e la morte in testa. Nessun allarme, nessun segnale premonitore. Poi, all’improvviso, i colpi, le urla, il panico. È cominciato così il pomeriggio di sangue del 23 luglio al 345 di Park Avenue, uno dei grattacieli più iconici della finanza mondiale.
Il killer, un uomo bianco di 27 anni originario di Las Vegas, ha raggiunto i piani alti del palazzo – il 32° e il 33° – e ha aperto il fuoco, lasciando a terra quattro persone, tra cui un poliziotto colpito alla schiena, morto poco dopo in ospedale. Quando gli agenti delle unità speciali sono riusciti a entrare, il tiratore era già morto: secondo le prime ricostruzioni si sarebbe tolto la vita. L’ipotesi più accreditata al momento è quella di un’azione mirata, forse contro i vertici della Rudin Management, la società che occupa il 33° piano.
Nel palazzo hanno sede colossi come Blackstone, KPMG, Deutsche Bank, la NFL. È qui che l’America ha sentito, ancora una volta, l’odore acre della propria tragedia ricorrente: un uomo con un fucile semiautomatico in un luogo simbolo, senza un perché chiaro, ma con un piano preciso.
Le immagini della CNN mostrano il killer mentre si avvicina all’ingresso: camicia azzurra, giacca blu, pantaloni neri, passo sicuro. Il tipo di arma non è stato ancora confermato, ma si parla con insistenza di un AR-15 o un AK-47, fucili tristemente noti per le stragi nelle scuole, nei supermercati, nei cinema, negli uffici. Stragi che si ripetono con una regolarità agghiacciante negli Stati Uniti, paese che ancora fatica a stringere davvero le maglie del controllo delle armi.
Dopo i primi spari, il lockdown ha paralizzato l’intero isolato. Gli elicotteri hanno sorvolato la zona, mentre droni e reparti speciali setacciavano il palazzo piano per piano. Il quartiere è rimasto completamente bloccato per ore. «Il tiratore è stato neutralizzato. La situazione è sotto controllo», ha scritto su X la commissaria capo Jessica Tisch. Solo in serata le decine di persone ancora dentro sono state fatte uscire, una alla volta, con le mani alzate. Alcune erano ancora sotto shock, altre piangevano in silenzio.
Un dipendente di Blackstone, che si trovava al 31° piano, racconta: «Abbiamo sentito un botto e poi un tonfo dall’alto. Non ci siamo mossi finché non è arrivata l’e-mail che segnalava la presenza di un tiratore nell’edificio. Da lì il caos».
Resta un enigma come il killer sia arrivato da Las Vegas a Manhattan con un’arma lunga. In aereo sarebbe stato impossibile senza essere scoperto. In treno o in autobus troppo rischioso. L’unica ipotesi plausibile è quella dell’auto privata: la polizia ha infatti rintracciato il veicolo del sospettato, parcheggiato non lontano. Ma anche questo dettaglio apre nuove domande: come ha pianificato il viaggio? Ha avuto complici? Perché proprio quel grattacielo? E soprattutto: perché colpire in quel modo?
Le indagini sono in corso, ma l’FBI non esclude che il bersaglio potesse essere una persona o una società precisa. Il killer non ha lasciato rivendicazioni, né messaggi sui social, né un manifesto. Solo il caos e il sangue. Ma chi lo conosceva lo descrive come “taciturno, introverso, ossessionato dai videogiochi e dalle teorie del complotto”.
Intanto, le polemiche sulla facilità con cui si possono acquistare fucili d’assalto tornano a infiammare il dibattito politico americano. Un dibattito che però, da Columbine in poi, si ripete sempre uguale a se stesso: un ciclo di indignazione, dichiarazioni, promesse… e poi più nulla. Le leggi federali restano fragili, mentre molti Stati permettono ancora l’acquisto di armi da guerra con una semplicità disarmante.
In parallelo, negli stessi giorni, le autorità statunitensi rilanciano l’iniziativa "Codice Rosso", un programma di formazione per parrucchiere ed estetiste sul riconoscimento precoce della violenza di genere. "Il problema non è solo giudiziario. È sociale. Serve una strategia globale: formazione, cultura, istituzioni", dicono i promotori. Parole che risuonano tragicamente attuali davanti a un’ennesima strage che affonda nelle pieghe irrisolte di un tessuto culturale violento.
E mentre l’America si prepara al prossimo lutto armato, Park Avenue si sveglia con i vetri spaccati, i nastri gialli, le candele. E le stesse, identiche domande di sempre.
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