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Coppa del Mondo 2030: la "mattanza" dei cani randagi!

Dietro la vetrina dell'evento, una guerra ai randagi mette in ombra i valori di sostenibilità e inclusione predicati dalla FIFA

Coppa del Mondo 2030

Coppa del Mondo 2030: strade pulite con il sangue dei cani randagi

Siamo nel 2025, l’anno in cui la FIFA predica sostenibilità, inclusione e diritti. Eppure in Marocco si muore. Non sugli spalti, ma per le strade. Non per mano di tifosi, ma per ordine delle istituzioni. Perché mentre il Regno del Marocco si prepara a ospitare la Coppa del Mondo 2030, nelle città si consuma una guerra che non ha nulla a che vedere con il pallone: una guerra ai cani randagi, sistematica, feroce, spietata.

Fucili, veleni, pestaggi. I racconti che emergono da Ifrane, Casablanca, Ben Ahmed e altre città marocchine compongono un mosaico fatto di sangue, paura e silenzi istituzionali. Gli animali vengono abbattuti nei vicoli, sparati in strada, gasati o caricati a forza in furgoni da cui spesso non escono più. I cittadini parlano di spari alle prime luci del giorno, di pozze di sangue davanti alle scuole, di cani buttati nei cassonetti come spazzatura. Un racconto che non può essere ignorato, se davvero si pretende di ospitare un evento globale nel segno della convivenza e del rispetto.

Le autorità marocchine giustificano tutto questo come una misura necessaria per la salute pubblica. Parlano di 100.000 morsi all’anno, di bambini a rischio, della rabbia che ancora circola. Eppure dal 2019 esiste un programma nazionale TNVR (Trap-Neuter-Vaccinate-Return), un’alternativa etica e funzionale. Ma le linee guida sono carta straccia quando, in nome dell’“immagine internazionale”, si sceglie la scorciatoia della violenza.

Perché sì, il problema non è la salute, è la vetrina. La vetrina perfetta che il governo marocchino vuole esibire alla FIFA, agli sponsor, ai turisti. Città “ripulite”, vie “ordinate”, nessun randagio a turbare i selfie dei visitatori o a rovinare la facciata patinata dell’evento. Ma a che prezzo? E chi paga davvero?

Cani randagi

Pagano i cani, ovviamente. Ma pagano anche le persone, come il barista Abderrahim Sounni, colpito da un proiettile vagante sparato da un veicolo comunale. Pagano le volontarie come Erin Captain, americana a Casablanca, che ha visto i suoi cuccioli massacrati davanti ai suoi occhi. Uno è morto sotto i calci, l’altro è stato trascinato via con le zampette spezzate. E intanto, i furgoni continuano a girare, giorno dopo giorno, come carri funebri pubblici.

Le proteste internazionali sono in corso. La PETA, Jane Goodall, attivisti da mezzo mondo si stanno mobilitando. Persino durante le partite si sono visti striscioni con scritto “Marocco, smettila di sparare a cani e gatti”. Ma la risposta ufficiale resta ambigua, distaccata, vagamente rassicurante. Il Marocco si difende dietro i numeri: “Stiamo investendo nei programmi TNVR”. Ma i cadaveri nelle strade raccontano un’altra storia, e gli attivisti lo sanno. Denunciano che le uccisioni proseguono indisturbate nel 2024, nel 2025, senza che nulla cambi davvero.

E la FIFA? Balbetta, prende tempo, promette monitoraggi. Dice di essere “in contatto con le autorità marocchine” per verificare il rispetto degli standard. Ma non è abbastanza. Dove sono le clausole etiche, i controlli indipendenti, le sanzioni? Davvero la promozione dell’immagine vale più della vita di migliaia di esseri senzienti?

Il sospetto è chiaro: si sta preparando un Mondiale sulla pelle degli invisibili. Invisibili perché non votano, non parlano, non disturbano i potenti. Invisibili perché sono cani. Ma dietro ogni animale assassinato c’è una comunità che soffre, cittadini che si indignano, volontari che resistono, bambini che non capiscono perché quella che doveva essere festa diventa terrore.

Questa non è “gestione del randagismo”. È macelleria urbana mascherata da decoro. È un’operazione cinica, pianificata, eppure ancora negata. È il volto oscuro di un Paese che vuole mostrarsi moderno e ospitale, ma che sceglie la brutalità come strumento di governo del territorio.

E allora no, non basta più raccontare la bellezza delle architetture arabe o i progressi negli stadi. Non si può celebrare il calcio dimenticando il sangue nei vicoli, le grida nei rifugi, i corpi nei cassonetti. La Coppa del Mondo 2030 si avvicina, ma il mondo ha gli occhi aperti. Il Marocco non può fingere che non stia succedendo nulla.

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