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26 Novembre 2025 - 22:10
Mohamed Shahin
Secondo il Viminale è «una minaccia concreta, attuale e grave per la sicurezza dello Stato». Secondo la Procura di Torino, al momento, è soltanto un denunciato per un blocco stradale durante un corteo pro-Palestina. In mezzo, una decisione amministrativa che sta spaccando il Parlamento: il provvedimento di espulsione firmato dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi nei confronti di Mohamed Shahin, 47 anni, egiziano, imam di una moschea torinese, da ieri trattenuto nel Cpr di Caltanissetta e diventato epicentro di un caso politico nazionale.

MATTEO PIANTEDOSI - MINISTRO DELL'INTERNO
L’uomo, in Italia dal 2004, sposato e padre di due figli piccoli, sostiene di essere un oppositore del presidente egiziano Al Sisi e di rischiare gravi ritorsioni nel caso di rimpatrio. Per questo ha presentato richiesta di protezione internazionale, mentre i suoi legali — gli avvocati Gianluca Vitale e Fairus Ahmed Jama — hanno annunciato battaglia. Intanto si chiedono perché sia stato trasferito proprio nel centro di permanenza più lontano da Torino, quello in Sicilia. Domani è prevista una nuova udienza.
A innescare il decreto ministeriale sono state soprattutto le parole pronunciate da Shahin il 9 ottobre, durante un comizio, parole rimbalzate sui social come un’apologia delle stragi di Hamas del 7 ottobre 2023. «Personalmente sono d’accordo, non è stata una violazione e nemmeno una violenza», aveva dichiarato l’imam. Una frase cruciale, richiamata nel decreto di espulsione, che secondo il Viminale avrebbe suscitato «disagio» persino nei settori più moderati della galassia Pro-Pal.

Il luogo del massacro del 7 ottobre 2023, divenuto oggi luogo di ricordo per centinaia di famiglie
Nel documento, tre pagine firmate da Piantedosi, vengono elencati altri elementi ritenuti rilevanti: Shahin avrebbe «intrapreso un percorso di radicalizzazione religiosa connotata da una spiccata ideologia antisemita»; sarebbe «in contatto con soggetti noti per la visione violenta dell’Islam»; e verrebbe indicato come «un esponente della Fratellanza Musulmana in Italia». Il ministero ritiene che la sua attività costituisca «una minaccia sufficientemente grave per la sicurezza dello Stato» e che possa «agevolare in vario modo organizzazioni o attività terroristiche».
Eppure, davanti alla magistratura torinese, non c’è nulla di tutto questo. In corso Massimo d’Azeglio esiste soltanto un fascicolo per il reato minore di blocco stradale. Come previsto dalla procedura, la DDA di Torino è stata interpellata per verificare se ci fossero elementi investigativi tali da sconsigliare l’espulsione. La risposta è stata negativa: nessun ostacolo all’allontanamento, nulla osta concesso.
La decisione del Viminale ha immediatamente acceso il fronte politico. Da destra arriva un sostegno compatto alla scelta di Piantedosi. La deputata di Forza Italia Isabella Del Monte si dice «incredula» per le richieste di rilascio arrivate «da una parte consistente della sinistra, dall’Anpi e dalla Cgil»: «La libertà di parola non può coincidere con il sostegno a gruppi terroristici».
Sul fronte opposto, Avs, Pd e M5S hanno presentato una interpellanza alla Camera chiedendo al governo di fermare l’espulsione e valutare il caso con maggiore prudenza, anche alla luce della domanda di asilo e dei rischi denunciati dall’imam in caso di rientro in Egitto. Per le opposizioni, il decreto appare sproporzionato rispetto agli atti giudiziari presenti a Torino.
Intanto, un giudice di pace ha già convalidato il provvedimento di espulsione con accompagnamento alla frontiera. Resta aperto il nodo sulla richiesta di protezione internazionale e sulla valutazione finale delle autorità competenti. Una decisione che incrocia due fronti caldissimi: la sicurezza nazionale e la tutela dei diritti fondamentali.
Il caso Shahin, tra dichiarazioni incendiarie, assenza di accuse penali gravi e un decreto amministrativo dall’impatto politico immediato, si candida a diventare uno dei nuovi terreni di scontro tra governo e opposizioni. E il verdetto sulla sua permanenza in Italia rischia di superare i confini giudiziari, trasformandosi nell’ennesimo banco di prova sul rapporto tra libertà di parola, sicurezza e gestione delle comunità religiose.
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