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25 Novembre 2025 - 19:11
Il Viminale caccia l’imam Shahin: Torino esplode tra accuse, proteste e paure
Il Viminale ha deciso. Vuole che Mohamed Shahin, l’imam più noto di Torino, lasci l’Italia dopo oltre vent’anni. E lo vuole subito, senza esitazioni, senza spiragli, senza permettere che la sua storia, la sua famiglia, la sua comunità, possano anche solo trovare un appiglio per rallentare la macchina della sicurezza nazionale. Un decreto secco, firmato dal ministro Matteo Piantedosi, e quella frase che pesa come un macigno: motivi di sicurezza dello Stato. Per lo Stato, insomma, non è più il tempo delle sfumature. Per Shahin, non è più il tempo di casa.
L’alba in cui la Digos bussa alla porta è l’inizio del punto di non ritorno. Nella sua abitazione di San Salvario ci sono la moglie e i due figli, 9 e 12 anni, ancora assonnati. Gli agenti entrano e comunicano la decisione: deve lasciare l’Italia immediatamente. Nessuna gradualità. Nessuna convocazione. Nessuna possibilità di prepararsi. Prima il passaggio in questura, poi il trasferimento diretto al CPR di Milano. È un’immagine fredda, dura, che la comunità islamica del quartiere non riesce a togliersi dalla testa: la famiglia rimasta sulla soglia, i bambini che chiedono dove stanno portando il padre, la moglie che chiama l’avvocata Fairus Ahmed Jama, accorsa immediatamente.
Il provvedimento arriva pochi giorni dopo le dichiarazioni che hanno incendiato Torino: quelle pronunciate in piazza Castello, durante il corteo pro-Palestina, quando Shahin aveva detto che il 7 ottobre “non è una violenza”, “non è una violazione”, ma una “reazione”. Una frase devastante, replicata sui social, rilanciata dai giornali, trasformata in prova definitiva di un presunto sostegno a Hamas. Poi le interviste in cui definiva Hamas “un movimento di resistenza legittimo”, dichiarazioni che collocano definitivamente l’imam nel mirino.
È in quel momento che entra in scena Augusta Montaruli, vicecapogruppo di FdI alla Camera: è lei la prima a chiedere l’espulsione. Parole durissime, pronunciate come un verdetto: «Sostegno al terrorismo, dichiarazioni gravissime. L’imam deve essere espulso. Il Ministero valuti i requisiti per allontanarlo dall’Italia». Nel giro di poche settimane il Ministero valuta eccome: apre il fascicolo, rilegge le dichiarazioni, aggiunge un tassello che rende tutto più semplice – la partecipazione dell’imam al blocco della Torino-Caselle, secondo le ricostruzioni un altro elemento che avrebbe pesato nella decisione finale – e firma l’espulsione.
La versione ufficiale parla di sicurezza nazionale. Quella dei suoi difensori parla di ritorsione politica. Perché, nel frattempo, l’avvocata Jama, insieme all’avvocato Gianluca Vitale, riesce almeno a fermare il rimpatrio immediato: Shahin chiede protezione internazionale. Questo allunga i tempi, ma non li ferma. Così l’imam, dopo un passaggio a Milano, viene trasferito nel CPR di Caltanissetta, dove attende la decisione della commissione territoriale. Gli avvocati lo dicono senza giri di parole: «In Egitto rischia torture e forse anche la morte. È un oppositore del regime di Al Sisi. Lo sanno tutti».
E infatti la comunità islamica di San Salvario reagisce come raramente si è vista reagire. Sgomento, paura, rabbia. Perché Shahin per molti non è solo un imam, ma un mediatore, un uomo presente nelle attività del quartiere, un riferimento nel dialogo interreligioso. Le persone che lo frequentano da anni lo descrivono come un uomo di pace, moderato, generoso. Lo dicono apertamente: «Ha sempre condannato la violenza. Non è un estremista. Nessuno di noi si sarebbe mai aspettato un’espulsione». Anche il post pubblicato dallo stesso Shahin sui social, prima dell’arresto, va in questa direzione: «Sono imam da più di dieci anni, promuovo dialogo, contrasto alla criminalità, lotta al terrorismo. La violenza non ha mai trovato spazio nella nostra comunità».
Ma la città, intanto, si spacca. In Prefettura si radunano centinaia di persone. Esponenti del PD, della Sinistra ecologista, del M5S, sindacati, attivisti, i centri sociali, mamme con i passeggini, studenti, fedeli, semplici cittadini. Sventolano cartelli Free Mohamed Shahin. L’avvocata Jama prende la parola per prima: «Shahin è pacifista, incensurato, non ha mai fatto male a nessuno». Poi Vitale rincara: «Un’opinione non può diventare un reato. Chi governa non gradisce le sue idee, e ora tenta di allontanarlo». La piazza applaude. Applaude forte.
Arrivano anche voci insospettabili. Come quella della Chiesa Valdese, con il presidente Sergio Velluto: «Se un’opinione diventa causa di espulsione, allora siamo di fronte a un reato d’opinione». Anche l’ANPI Nicola Grosa interviene: «In Egitto rischia il carcere o peggio. Questa espulsione è un pericolo per la convivenza del nostro quartiere. La moschea di via Saluzzo è sempre stata aperta e collaborativa». Un intervento che colpisce molto la comunità: l’ANPI non parla spesso di imam. Ma quando lo fa, pesa.
Il mondo politico nazionale si divide come un foglio strappato. Il senatore del PD Andrea Giorgis chiede conto dei motivi veri dell’espulsione: «Basta una dichiarazione? Ci sono indagini? Quali sono le ragioni di ordine pubblico?». Dall’altra parte, Fratelli d’Italia alza il muro: «Sono i soliti che si schierano contro la sicurezza», attacca Montaruli. E Forza Italia, con Roberto Rosso e Marco Fontana, coglie l’occasione per una stoccata al sindaco Lo Russo: «Il Governo difende la legalità. Il Comune flirta con anarchici e pro-Palestina. L’espulsione è un campanello d’allarme anche per il progetto del grande centro islamico in Aurora». In mezzo, Torino, che come sempre assorbe il colpo.
Il quartiere di San Salvario, però, resta il luogo dove tutto questo pesa davvero. Qui la moschea non è solo un luogo di culto: è una presenza quotidiana, un punto di riferimento, un simbolo della trasformazione urbana degli ultimi vent’anni. È il posto dove le comunità islamiche, laiche, valdensi, cattoliche ebraiche hanno costruito dialoghi, progetti, incontri. E ora molti temono che l’espulsione di Shahin sia un segnale: non solo contro un uomo, ma contro un modello di convivenza che per anni ha funzionato.

E resta una domanda sospesa, pesante come un macigno: davvero lo Stato può espellere un uomo incensurato, padre di due bambini nati in Italia, da vent’anni residente qui, per una frase – durissima, discutibile, politicamente infiammabile, certo – ma pur sempre una frase? È davvero sufficiente per parlare di minaccia alla sicurezza nazionale? O siamo di fronte al confine sempre più labile tra sicurezza e dissenso, tra opinione e reato d’opinione, tra politica e giustizia?
Torino, nel frattempo, continua a guardare. Sa che questa vicenda non si chiuderà presto. E sa che come finirà questa storia dirà molto non solo dell’imam Mohamed Shahin, ma dell’Italia intera.
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