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Cronaca
26 Novembre 2025 - 17:17
Imam Shahin, battaglia sull’asilo politico accende lo scontro: a Torino esplode il caso e la politica si spacca
La vicenda di Mohamed Shahin, imam della moschea Omar Ibn Al Khattab di via Saluzzo, si sposta ora sul terreno giudiziario, con un nuovo tassello che cambia lo scenario: l’uomo ha presentato domanda di protezione internazionale, sostenendo che in Egitto, da cui è fuggito oltre vent’anni fa, rischierebbe persecuzioni politiche e gravi violenze a causa delle sue posizioni critiche verso il regime di Abdel Fattah Al Sisi. Una richiesta che – come prevede la legge – sospenderebbe l’esecuzione del rimpatrio, ma che nel suo caso non ha fermato la macchina amministrativa.
Dopo l’arresto eseguito all’alba nel suo appartamento di San Salvario, alla presenza della moglie e dei due figli minori, un giudice di pace di Torino ha infatti convalidato il decreto di accompagnamento alla frontiera disposto dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Shahin non è stato rimpatriato nell’immediato, ma è stato trasferito prima nel CPR di Milano e poi in quello di Caltanissetta, dove attende un nuovo passaggio processuale. Domani, il giudice di pace del capoluogo torinese discuterà la legittimità del trattenimento; l’imam comparirà in videoconferenza. A difenderlo ci saranno gli avvocati Gian Luca Vitale e Fairus Ahmed Jama, che fin dal primo momento hanno denunciato «una misura sproporzionata e pericolosa».
Secondo quanto trapela, il decreto firmato da Piantedosi è una delle motivazioni più dure degli ultimi anni: l’imam verrebbe definito «portatore di ideologie fondamentaliste e di matrice antisemita», in contatto con ambienti del radicalismo islamico, e accusato di aver «legittimato lo sterminio degli israeliani» in più occasioni pubbliche.
Il testo mette al centro in particolare una dichiarazione pronunciata durante una manifestazione pro-Palestina il 7 ottobre, definita dalle autorità «una apologia dell’attacco di Hamas». Il decreto sottolinea che quelle parole hanno avuto «vasta risonanza mediatica» e creato «disagio» perfino all’interno dei movimenti filopalestinesi torinesi.
Dal punto di vista penale, invece, l’unico fascicolo aperto è una denuncia per blocco stradale durante una manifestazione del 17 maggio scorso. Non compaiono accuse di terrorismo, proselitismo o istigazione alla violenza.
Sul piano politico, il centrodestra rivendica apertamente il provvedimento. Per Fratelli d’Italia Piemonte, la linea è chiara, durissima e senza sfumature. Il senatore Carlo Riva Vercellotti commenta:
«Bene ha fatto il ministro Piantedosi. È l’applicazione degli strumenti che uno Stato di diritto deve usare quando emergono figure che, per radicalità del linguaggio e influenza nella loro comunità, rappresentano un rischio per la sicurezza nazionale».

Il ministro Piantedosi
Il parlamentare sottolinea anche gli aspetti più politici del caso:
«Non possiamo permettere che figure influenti diventino vettori di propaganda estremista. Le sue dichiarazioni contro la comunità ebraica sono inaccettabili. È un atto di responsabilità. Mi stupisce che una parte della sinistra si mobiliti per difenderlo».
La posizione viene ribadita anche da Forza Italia. La deputata Isabella De Monte attacca frontalmente chi chiede il ritiro del provvedimento:
«La libertà di parola non può coincidere con il sostegno a gruppi terroristici. Incredibile che il centrosinistra difenda un uomo che ha definito Hamas un movimento di resistenza legittima».
Una lettura che si inserisce in un clima politico già teso, in cui il Viminale rivendica la linea dura sulla sicurezza e sul controllo di figure percepite come sensibili ai temi della radicalizzazione.
La reazione dall’altro lato è immediata e altrettanto compatta. Da Torino arriva la posizione durissima della Cgil, che chiede «il rientro immediato» dell’imam e la revoca dell’espulsione:
«Shahin è integrato nella comunità, collabora da anni con associazioni e con l’Anpi. Il suo trasferimento al Cpr ne mette a rischio l’incolumità fisica e psicologica. In Egitto, da oppositore politico, rischia la vita», denuncia il sindacato.
Non meno netto il fronte parlamentare. In un’interrogazione alla Camera, Avs, M5S e PD parlano apertamente di:
«Uso politico del diritto. La libertà di espressione trattata come reato, il dissenso come minaccia».
I parlamentari ricordano anche che la presentazione della domanda d’asilo sospende per legge l’espulsione, contestando dunque la legittimità degli atti successivi:
«Espellere un oppositore politico verso un Paese in cui rischia tortura e morte significa tradire i principi dello Stato di diritto».
Torino vive questa vicenda in un equilibrio sempre più fragile. Da un lato la presenza di una comunità musulmana integrata e attiva, che vede nell’imam una figura di riferimento. Dall’altro un’opinione pubblica esposta alle tensioni internazionali e ai dibattiti sulla sicurezza.
Sul territorio torinese la vicenda ha già prodotto effetti immediati: presidi davanti alla Prefettura, appelli di associazioni, lettere aperte, interventi di giuristi e attivisti. E domani, nell’udienza sul trattenimento, si aprirà di fatto il primo fronte concreto della battaglia legale.
Il punto che divide il Paese è questo. È legittimo espellere uno straniero residente in Italia da vent’anni – incensurato, padre di due minori – per una frase politica ritenuta “apologia”, ma mai oggetto di contestazione penale?
Oppure, come sostiene il Viminale, quella frase rappresenta un indizio sufficiente di radicalizzazione tale da giustificare la misura più estrema prevista dall’ordinamento?
La risposta, nei fatti, non è teorica: stabilisce il confine tra sicurezza pubblica e libertà di espressione, tra dissenso politico e pericolo sociale, tra giudizio morale e giudizio giuridico.
Nelle prossime ore, il giudice di pace dovrà valutare se mantenere l’imam nel Cpr o se sospendere il trattenimento alla luce della domanda di protezione internazionale. Una decisione che influenzerà l’intero percorso e che potrebbe, di fatto, determinare i tempi dell’eventuale rimpatrio.
Torino guarda a questa udienza come a un momento decisivo. Non solo per il destino di Mohamed Shahin, ma anche per ciò che questa vicenda dirà della capacità delle istituzioni di muoversi nel punto più delicato in cui si incontrano – e spesso si scontrano – sicurezza, diritti, politica e comunità.
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