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26 Novembre 2025 - 14:07
Imam Shahin espulso a Torino, dalla Procura solo una denuncia per blocco stradale
L’alba in cui la Digos bussa alla porta di Mohamed Shahin è un punto di non ritorno per Torino. La moglie ancora in vestaglia, i due figli di 9 e 12 anni svegliati di soprassalto, il passo rapido degli agenti che lo prelevano e lo portano via. Prima in Questura. Poi al CPR di Milano. Infine, dopo poche ore, a quello di Caltanissetta. Il decreto firmato dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi parla di “motivi di sicurezza nazionale”, una formula che chiude qualsiasi margine di trattativa. L’imam più noto della città, dopo oltre vent’anni in Italia, deve andarsene subito. Senza appigli. Senza gradualità. Senza possibilità di restare con la sua famiglia.
La vicenda, però, si complica mentre la città discute. In Procura a Torino, infatti, non esiste alcun fascicolo per terrorismo, istigazione o proselitismo, né per le frasi pronunciate in piazza. C’è solo una denuncia per “blocco stradale” risalente al 17 maggio, durante una manifestazione pro-Palestina. Nulla che riguardi sicurezza nazionale o radicalizzazione. L’espulsione, dunque, è un atto esclusivamente amministrativo, scollegato dall’autorità giudiziaria torinese.
Ma le frasi dette dall’imam durante il corteo del 9 ottobre restano il detonatore politico: aveva definito il 7 ottobre «una reazione» e non un atto di violenza. Parole durissime, che gli ambienti istituzionali hanno interpretato come un’apologia di Hamas.

Intorno a queste parole si è costruito l’impianto politico della vicenda. E lo scontro, oggi, è totale.
Da un lato c’è la destra di governo. È Augusta Montaruli, deputata di Fratelli d’Italia, a rivendicare l’espulsione come un risultato diretto di una sua interrogazione: «Ho chiesto al Viminale se l’imam avesse i requisiti per restare. La risposta è arrivata. A fare polemica sono i soliti che si schierano contro la sicurezza». Il tono è netto, privo di sfumature: per Montaruli la misura è legittima e necessaria.
Sulla stessa linea Forza Italia, con le dichiarazioni durissime del senatore Roberto Rosso e di Marco Fontana, segretari provinciale e cittadino del partito. «Il Governo fa rispettare la legge», dicono, «mentre il sindaco Lo Russo flirta con ambienti anarchici e pro-Palestina legati ad Askatasuna». Parole che lanciano un’accusa precisa all’amministrazione comunale e, allo stesso tempo, collegano l’espulsione al dibattito sul grande centro islamico previsto nel quartiere Aurora, ora riletto come una minaccia potenziale: «La cacciata dell’imam deve essere un campanello d’allarme».
Dall’altro lato si colloca una fetta rilevante del mondo civile e politico torinese. Il movimento Torino per Gaza, che ha dato per primo la notizia del fermo, definisce la decisione «islamofoba e razzista». Gli avvocati che difendono Shahin ricordano il rischio “reale e documentato” che correrebbe in Egitto: torture, persecuzioni, carcere. E la comunità islamica di San Salvario parla di un uomo «pacifico» e «sempre dialogante». L’ANPI Nicola Grosa si espone pubblicamente, denunciando «un pericolo per la convivenza» e ricordando che l’imam «in Egitto rischia la vita».
Nel mezzo, la sinistra e il centrosinistra sollevano dubbi e chiedono spiegazioni formali. Il PD, con alcuni esponenti locali e nazionali, chiede conto della reale motivazione del provvedimento: «È bastata una dichiarazione? O ci sono elementi che non sono stati resi pubblici?». E intanto crescono le mobilitazioni: centinaia di persone in Prefettura, cartelli “Free Mohamed Shahin”, manifestazioni spontanee di sostegno.
È evidente che l’espulsione non è un episodio isolato, ma un frammento di un quadro più ampio: convivenza religiosa, conflitto mediorientale, sicurezza nazionale, gestione dei CPR. E oggi, con la conferma che in procura pende soltanto una modesta denuncia per blocco stradale, la vicenda diventa ancora più politica. Per il Viminale, Shahin rappresenta un rischio. Per i suoi sostenitori, è un provvedimento di repressione ideologica. Per Torino, si apre una frattura che va ben oltre il singolo caso.
Al centro, resta una domanda che nessuno sembra in grado di sciogliere: bastano davvero parole – per quanto gravi – a decretare che un uomo incensurato, padre di figli italiani, residente qui da vent’anni, sia una minaccia per lo Stato? Oppure siamo di fronte a quel confine sempre più sottile tra opinione, dissenso e pericolo?
La città, intanto, resta sospesa. In attesa della decisione sulla richiesta di protezione internazionale. In attesa di capire se l’imam potrà restare o verrà rimandato in un Paese dove, secondo chi lo sostiene, corre rischi gravi. In attesa di capire cosa questa storia dirà, alla fine, dell’Italia e della Torino di oggi.
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