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Salute
24 Novembre 2025 - 09:26
Il silenzioso sequestro dell’emicrania: perché non è “solo mal di testa” e come riconoscere una malattia che cambia la vita
Ogni giorno milioni di italiani vivono ostaggio di un nemico silenzioso che continua a essere chiamato con un nome che lo sminuisce: mal di testa. Una definizione che appare innocua, quasi domestica, e che invece nasconde una delle patologie neurologiche più diffuse e invalidanti in assoluto: l’emicrania. Nel nostro Paese riguarda circa 6 milioni di persone, con un impatto sproporzionato sulle donne, che rappresentano oltre 4 milioni dei pazienti in cura. Non è un fastidio passeggero, non è la conseguenza di una giornata storta, non è “sensibilità”: è una malattia cronica complessa, riconosciuta dal 2020 come condizione sociale invalidante quando assume forma severa. Continuare a chiamarla “solo mal di testa” non è più soltanto un errore di percezione, ma una barriera che ritarda diagnosi, cure e comprensione.
L’emicrania è una malattia che vive spesso nascosta nelle pieghe del quotidiano perché chi ne soffre impara presto a minimizzare, a tacere, a chiedere scusa per attacchi che arrivano improvvisi, costringono a rinunciare a impegni e ridisegnano le giornate. Eppure, quando arriva, non lascia margini: può immobilizzare, tagliare fuori dal mondo, alterare la vista, il tatto, l’umore e la capacità di muoversi. Le testimonianze di personaggi noti contribuiscono a squarciare un velo di silenzio. La regista Simona Izzo ha raccontato dolori così intensi da non poter nemmeno sfiorare i capelli. Il comico Tullio Solenghi convive con l’emicrania fin dall’infanzia e negli anni ha trovato beneficio in un’alimentazione vegana. L’attore Ben Affleck individua nello stress il principale detonatore, mentre la tennista Serena Williams collega i suoi attacchi alle oscillazioni ormonali. E poi i celebri mal di testa di Giulio Andreotti o della diva Liz Taylor, spesso citati per ricordare come il dolore non guardi allo status, alla professione o alla visibilità.

La professoressa Marina De Tommaso, presidente della Società Italiana per lo Studio delle Cefalee, sottolinea da anni quanto il racconto pubblico di chi soffre sia fondamentale per togliere all’emicrania quell’aura di fastidio minore. Anche perché, in alcuni casi, un mal di testa improvviso e fuori scala può essere un campanello di allarme per patologie più gravi. Ed è proprio questo il nodo: capire quando un dolore è “normale” e quando rappresenta invece un segnale da non ignorare.
Un mal di testa passeggero, legato alla disidratazione o allo stress, può risolversi con un analgesico. L’emicrania no: è un dolore spesso unilaterale, pulsante, che si accompagna a nausea, vomito, fastidio per la luce, i rumori e persino gli odori. È un dolore che torna, che segue ritmi precisi, che in certi periodi si intensifica, in altri si attenua, senza però scomparire del tutto. Esistono poi sintomi che impongono un’immediata valutazione medica, come febbre elevata, improvvisa confusione, paralisi o difficoltà a muovere un lato del corpo, alterazioni del viso, il primo mal di testa violentissimo dopo i 70 anni o un dolore esplosivo associato a vomito a getto. In questi casi non bisogna aspettare: il pronto soccorso è l’unico luogo adeguato per escludere patologie acute.
Per alcune persone l’emicrania si accompagna all’aura, una fase che può precedere il dolore e che genera sintomi spaventosi se non conosciuti. Luci lampeggianti, zone cieche nel campo visivo, formicolii al viso o alle mani, sensazione di spilli sulla pelle. Sono disturbi reversibili che di solito durano pochi minuti, ma che richiedono attenzione, soprattutto in presenza di fattori di rischio cardiovascolare o terapie ormonali. Non a caso la stessa De Tommaso ha raccolto anni di indicazioni pratiche nel suo libro “Una vita col mal di testa”.
La comprensione scientifica dell’emicrania è cambiata radicalmente negli ultimi anni con l’identificazione del ruolo del CGRP, un peptide coinvolto nella trasmissione del dolore. Questa scoperta ha aperto la strada a terapie innovative che stanno rivoluzionando la vita dei pazienti. Gli anticorpi monoclonali anti-CGRP, i farmaci orali di nuova generazione (i gepanti) e persino la tossina botulinica, già nota in ambito estetico, sono oggi strumenti clinici efficaci per ridurre la frequenza e l’intensità degli attacchi. Molti pazienti passano da venti giorni al mese di dolore a pochi episodi controllabili. Sono risultati che solo un decennio fa sarebbero sembrati impossibili. Il limite principale resta il costo: il Servizio Sanitario Nazionale offre queste cure soltanto ai casi più gravi o a chi non risponde ai trattamenti tradizionali. Una scelta comprensibile ma che apre interrogativi sull’equità nell’accesso alla terapia. Per chi ha forme severe, quelle poche fiale o compresse mensili possono rappresentare la differenza tra sopravvivere e vivere.
La diagnosi giusta passa spesso da un percorso che inizia dal medico di base e prosegue con il neurologo o un Centro Cefalee, presenti in molte strutture pubbliche italiane. Arrivarci preparati può fare la differenza: un diario degli attacchi, l’elenco dei farmaci assunti, gli orari in cui si manifesta il dolore, eventuali correlazioni con il ciclo mestruale, alimentazione, stress lavorativo o alterazioni del sonno. L’emicrania è un mosaico complesso di fattori e capire il proprio pattern è il primo passo per controllarla.
Il motivo per cui colpisce più le donne non è culturale ma biologico. Gli estrogeni modulano la percezione del dolore e influenzano la reattività dei circuiti neuronali coinvolti nell’emicrania. Le variazioni ormonali legate al ciclo, alla gravidanza e alla menopausa rendono la malattia più frequente e spesso più aggressiva nella popolazione femminile. Un aspetto che richiede approcci terapeutici personalizzati, soprattutto nei periodi di transizione ormonale.
L’emicrania ha accompagnato la storia umana ben prima che la medicina imparasse a descriverla. Si ritiene che Van Gogh soffrisse di forme con aura, scambiate a volte per allucinazioni. Lo scrittore Julio Cortázar definiva i suoi attacchi come “un cane che morde dall’interno”. Nel Medioevo si pensava che il dolore derivasse da “vapori cattivi” e si tentavano cure oggi impensabili, come scarificazioni in punti precisi della testa. Nell’Ottocento vittoriano erano diffusi apparecchi che generavano elettricità statica, ritenuta capace di “riequilibrare” il cranio. Il nome stesso “emicrania” deriva dal greco hemikrania, cioè “metà testa”, un’indicazione che resiste ancora oggi nella descrizione clinica.
Il dolore, però, non appartiene al passato. Appartiene al presente di milioni di persone che imparano a convivere con un disturbo imprevedibile, spesso sottovalutato dall’ambiente circostante. La frase “è solo un mal di testa” continua a ferire chi, durante un attacco, non riesce a camminare, a parlare con continuità, a tollerare una luce accesa. E questo atteggiamento culturale, ancora diffuso, resta uno dei principali ostacoli alla cura.
Il messaggio più importante, per chi soffre, è semplice e difficile allo stesso tempo: non minimizzare. Chiedere aiuto non è un segno di fragilità ma la prima forma di terapia. L’emicrania non si supera con la volontà, né con frasi stereotipate come “tieni duro”. Si affronta con diagnosi precise, trattamenti adeguati, percorsi di prevenzione e consapevolezza dei propri segnali interni. La scienza offre strumenti reali, e continuare a viverla come un destino immutabile è un peso che nessuno dovrebbe portare da solo.
Chi convive con l’emicrania merita ascolto, rispetto e cure basate sull’evidenza scientifica. Perché dietro un attacco non c’è un semplice dolore: c’è una malattia che può togliere spazio, tempo, energie e opportunità. Riconoscerla è il primo passo per restituire tutto ciò che il dolore, silenziosamente, sottrae.
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