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L'Ospedale di Ivrea "abbandona" Anita. Quando curarsi diventa una battaglia contro il silenzio

Un'emicrania cronica, una terapia sospesa e nessuno che risponda: la denuncia di Anita Donna Bianco svela la violenza più invisibile, quella dell’indifferenza. E il diritto alla salute si trasforma in un percorso a ostacoli tra bug burocratici, ferie e farmacie che si rimpallano le responsabilità

Anita lasciata sola dal sistema. Quando curarsi diventa una battaglia contro il silenzio

fot archivio

C’è una forma di violenza silenziosa che non fa rumore, non lascia lividi visibili, eppure logora ogni giorno chi si trova a combattere con una fragilità di salute e con un sistema che smette di ascoltare. È la violenza dell’indifferenza, quella che lascia sole le persone quando più avrebbero bisogno di attenzione, di cure, di una voce umana dall’altra parte del telefono. È quello che è accaduto a Anita Donna Bianco, una paziente in cura presso il Reparto di Neurologia dell’Ospedale di Ivrea per emicrania cronica. E ciò che racconta non è solo la sua storia, ma il riflesso nitido e inquietante di una falla sistemica.

Dopo una delicata disintossicazione dai triptani, a febbraio, Anita ha iniziato una nuova terapia con anticorpi monoclonali (Emgality), un farmaco che può essere somministrato solo attraverso un preciso piano terapeutico digitale. Un passaggio obbligato, che richiede aggiornamenti periodici sul portale dell’AIFA per garantire la distribuzione del medicinale nelle farmacie ospedaliere attraverso il Servizio Sanitario Nazionale. Una procedura rigida, ma chiara. O almeno, così dovrebbe essere.

archivio

La visita di controllo era fissata per il 22 maggio. Ma viene spostata al 26. Cambio turno. Il medico di riferimento – unico, insostituibile – quel giorno non riesce ad accedere al portale AIFA. “Mi è stato detto che comunque la copertura del farmaco era garantita fino a 45 giorni”, racconta Anita, “ma il bugiardino parlava chiaro: l’efficacia è cessata nei tempi previsti. E io sono rimasta con 13 giorni consecutivi di dolori insopportabili, di emicranie che mi hanno annientata, che hanno compromesso ogni gesto quotidiano”.

Quel piano terapeutico non arriva. Non in forma digitale, almeno. Il 10 giugno, dopo insistenze e solleciti, il medico comunica a Anita di aver predisposto un piano cartaceo. Ma anche questo si trasforma in un vicolo cieco. La farmacia ospedaliera di Torino lo rifiuta perché risulta ancora in carico a Ivrea. Ivrea, a sua volta, si dichiara impossibilitata a somministrare il farmaco perché Anita ha la residenza a Torino. Lo scontro tra competenze territoriali diventa una farsa sulla pelle di una paziente. Un cortocircuito burocratico che, se non fosse tragico, rasenterebbe il grottesco.

Solo grazie all’umanità della farmacia ospedaliera di Ivrea, Anita riesce a ottenere una singola dose del farmaco. Un tampone momentaneo. Nulla che possa garantire continuità, nulla che possa placare l’ansia di sentirsi di nuovo esposta al dolore, senza protezione.

Ma ciò che colpisce più di tutto, nel racconto di Anita, è quel vuoto che si allarga attorno a chi chiede aiuto. Il medico di riferimento è assente da tempo per ferie. Nessun sostituto. Nessun collega disponibile. “Ho parlato solo con la centralinista”, scrive, “che mi ha detto di provare col medico di base. Ma il medico di base non può intervenire su una terapia specialistica. Ho scritto mail, ho chiamato. Nessuna risposta, nessuna voce, nessuna guida”.

Nel silenzio delle istituzioni sanitarie, Anita Donna Bianco trova il coraggio di denunciare pubblicamente quello che per molti resta un sussurro impotente. “Ho deciso di raccontarlo perché ho gli strumenti per farlo. Ma penso a tutte le persone più fragili, più sole, che non riescono a farsi sentire. E penso a questa campagna in corso contro le aggressioni al personale sanitario. Mi chiedo: e se esistesse una campagna che mettesse al centro i pazienti e i loro diritti?”

La sua domanda è una lama che taglia dritta il cuore del problema: non si tratta di colpe individuali, ma di un meccanismo arrugginito, incapace di rispondere con tempestività e umanità. Di un sistema che, nella sua ossessione per la procedura, dimentica le persone. Che nella rigidità dei suoi protocolli, perde di vista la cura. E quando si resta senza interlocutori, si resta anche senza terapia.

Anita si sta già muovendo sul piano formale. Ha contattato l’Associazione per la tutela del malato e annuncia un reclamo ufficiale. È pronta a fornire documentazione dettagliata di ogni passaggio, ogni email, ogni silenzio. Ma quello che chiede, oggi, è qualcosa di più profondo: una presa di coscienza collettiva. Un’attenzione che vada oltre il suo caso. Una società che torni a mettere al centro la cura come diritto e non come privilegio.

E allora, in un’Italia che continua a parlare di sanità pubblica come vanto nazionale, la storia di Anita Donna Bianco ci costringe a guardare sotto la superficie delle parole. Là dove il diritto alla salute si scontra con l’inerzia, con l’abbandono, con l’invisibilità dei più fragili. Là dove la burocrazia uccide il senso stesso della cura.

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