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Reperti trafugati tra Venezia e Torino tornano allo Stato: 12 capolavori sottratti agli scavi clandestini

Tra le opere un cratere apulo di dimensioni eccezionali, hydria, kylix e tanagrina: indagine del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale chiude un traffico silenzioso

Reperti trafugati

Reperti trafugati tra Venezia e Torino tornano allo Stato: 12 capolavori sottratti agli scavi clandestini

Dodici reperti archeologici di straordinaria qualità, rimasti per troppo tempo nascosti tra appartamenti privati e locali di un’impresa di settore tra Venezia e Torino, tornano finalmente allo Stato. Il Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale (TPC) di Venezia li ha restituiti ai Musei Reali di Torino e alla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Venezia, chiudendo un’indagine che ha riportato alla luce un frammento prezioso del patrimonio archeologico del Paese. È una storia che attraversa secoli e città, e che testimonia ancora una volta la vulnerabilità dei reperti provenienti dagli scavi clandestini, spesso sottratti in contesti funerari e inseriti, in modo illecito, nel circuito della ricettazione.

Tra i beni riconsegnati spicca un pezzo che, da solo, basterebbe a raccontare un’intera civiltà: un cratere a mascheroni in ceramica apula a figure rosse, decorato con sovradipinture bianche e gialle, risalente al IV secolo a.C.. Con i suoi 150 centimetri di altezza, è uno degli esemplari più imponenti mai rinvenuti, testimonianza della raffinatezza artistica dell’Italia meridionale in età classica e simbolo di un mondo che affidava ai vasi più monumentali il compito di celebrare la vita, la memoria e il rito.

Accanto al cratere, la raccolta comprende un gruppo eterogeneo ma coerente di manufatti: un’hydria a figure rosse, una kylix a figure nere, un’oinochoe in ceramica apula, una lekythos a figure nere, una testina fittile, una figurina tanagrina, due askòi — uno in terracotta antropomorfa e uno in bronzo — una piccola kore in bronzo, uno specchio in osso decorato a sbalzo e un balsamario in vetro verde chiaro. Un mosaico di oggetti destinati, in origine, ad accompagnare i defunti nei corredi funerari dei santuari, delle necropoli e delle aree sacre del Mezzogiorno antico.

La loro presenza in appartamenti privati a Venezia e a Torino non è un mistero: è il risultato di un fenomeno che da decenni sottrae testimonianze preziose al territorio italiano. Secondo gli investigatori, questi reperti provengono con alta probabilità da scavi clandestini condotti in contesti funerari, successivamente immessi nel circuito della ricettazione da parte di soggetti ignoti e infine arrivati nelle mani dei proprietari più recenti, che — sottolineano i Carabinieri — non disponevano di alcun titolo di proprietà.

L’indagine, coordinata dalla Procura della Repubblica di Venezia, prende avvio nell’agosto 2024. È allora che la Soprintendenza veneziana ispeziona un palazzo sottoposto a vincolo monumentale, segnalando alcune anomalie che destano l’attenzione degli esperti del Nucleo TPC. Da quel sopralluogo nasce una rete di riscontri che porta i Carabinieri a organizzare una serie di perquisizioni mirate: nel dicembre successivo gli investigatori entrano in un’abitazione veneziana e in una sede operativa torinese di un’impresa specializzata nel settore, ricostruendo la filiera illecita che ha protetto questi reperti per anni, forse decenni.

La scoperta è significativa non soltanto per il numero degli oggetti recuperati, ma soprattutto per la loro qualità. Ogni reperto testimonia un segmento del Mediterraneo antico: artigiani dell’Apulia tardo-classica, officine attiche, maestranze locali che modulavano forme, colori e iconografie in un dialogo continuo tra cultura greca e tradizione italica. L’impatto culturale dello scavo clandestino è devastante: quando un contesto funerario viene violato, non viene sottratto solo il singolo oggetto, ma l’intero quadro interpretativo che consente agli archeologi di leggere il passato. I Carabinieri, con operazioni come questa, recuperano frammenti di identità collettiva prima ancora che beni economici.

A marzo 2025 la Procura di Venezia dispone il dissequestro e la restituzione allo Stato dei reperti, chiudendo il cerchio di un’indagine complessa e delicata. I beni vengono presi in carico dai Musei Reali di Torino e dalla Soprintendenza di Venezia, che ne curano la tutela e verificano il loro stato di conservazione. Ora tutti gli oggetti — dal cratere monumentale ai più piccoli manufatti — saranno valorizzati al Museo archeologico nazionale “Vito Capialbi” di Vibo Valentia, una sede scelta non solo per vicinanza geografica all’area culturale di provenienza dei reperti, ma anche per la capacità del museo di sostenere un progetto espositivo che restituisca questi oggetti alla loro storia originaria.

La vicenda, nella sua linearità investigativa, rimette al centro un tema che da anni attraversa il dibattito sulla tutela del patrimonio: la continuità del mercato illecito dei beni culturali. Nonostante i progressi tecnologici, la cooperazione internazionale e la specializzazione dei nuclei investigativi, gli scavi clandestini restano una piaga che impoverisce il Paese e sottrae alla collettività testimonianze spesso irripetibili. Ogni reperto recuperato è un successo, ma è anche la spia di un fenomeno che continua a generare profitti e rischi.

Per Venezia e Torino, questa operazione è anche un modo per riaffermare la capacità delle istituzioni culturali di collaborare, condividere conoscenze e gestire in modo integrato la tutela del patrimonio. Per Vibo Valentia, invece, i reperti rappresentano un’opportunità straordinaria: non solo per ampliare le collezioni del Museo Capialbi, ma per rafforzare il ruolo della città come polo della memoria archeologica del sud Italia.

A un Paese spesso accusato di non saper proteggere il proprio patrimonio, la restituzione di questi dodici reperti offre un’immagine diversa: quella di una macchina investigativa competente, di una rete di soprintendenze vigili e di musei pronti ad accogliere e valorizzare ciò che il traffico illecito ha tentato di sottrarre. Ogni recupero è un atto di giustizia verso la storia. Ogni reperto salvato è un frammento di verità che torna al suo posto.

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