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18 Novembre 2025 - 10:05
Torino smonta le sue cabine telefoniche morenti: 258 relitti fra degrado, nostalgia e un passato che non vuole morire
C’è un rumore che appartiene ormai quasi al mito: il clic della porta a molla che si chiude alle spalle, la cornetta che vibra nel palmo della mano, la moneta che cade nel buio metallico del raccoglitore, un sussurro ovattato che si dissolve nel traffico. È un rumore che a Torino sopravvive appena, incastrato dentro 258 cabine telefoniche che resistono come installazioni involontarie, frammenti di un’epoca che non c’è più. Le si incontra ai margini di piazze, lungo i viali, vicino alle fermate dei tram. Alcune in piedi per forza d’inerzia, altre sfondate, imbrattate, invase da rifiuti o pezzi di vetro incollati all’asfalto. Sono oggetti che oggi quasi nessuno usa, ma che ancora raccontano qualcosa su di noi.
La loro presenza è diventata sempre più simbolica, mentre la loro funzione si è dissolta. Dal 2001, anno spartiacque in cui l’avanzata dei cellulari ha iniziato a trasformare radicalmente le abitudini degli italiani, l’utilizzo delle cabine è crollato del 90%, sia per numero di chiamate sia per durata. Un tracollo silenzioso, che non ha generato polemiche né rivoluzioni, ma un lento spegnimento. Eppure, l’atto di chiudersi dentro una cabina resta impresso negli immaginari individuali e collettivi: come se quei metri quadri trasparenti fossero stati, per decenni, il luogo segreto dove si poteva essere fragili senza essere visti.
E allora accade che, anche oggi, davanti a una cabina sfondata, qualcuno si fermi un attimo. A ricordare una telefonata fatta durante il servizio militare, un appuntamento dato con timidezza, una conversazione rubata al gelo. O, più semplicemente, a ricordare che l’attesa aveva un suono, un ritmo, uno spazio fisico. Come negli spot della SIP, quando pubblicizzare un telefono significava pubblicizzare un legame. Come nei film che hanno trasformato la cabina in un luogo narrativo: il telefono rosso che salva il mondo in Matrix, la cabina come trappola in Phone Booth, perfino l’immagine iconica di Superman che cerca un posto dove cambiarsi, trovando una cabina che ormai non ha più pareti.

Oggi Torino deve decidere cosa farne. La linea tracciata dal Comune è pragmatica: intervenire prima sulle cabine più degradate, dove i vetri rotti e gli atti vandalici creano insicurezza e percezione di abbandono. Un lavoro che dipende anche dai ritmi di Telecom, impegnata a selezionare tramite appalto le imprese incaricate dello smontaggio. Una rimozione progressiva, mai definitiva, perché la città non vuole cancellare un pezzo della propria memoria senza pensarci due volte. Ma non vuole neanche tollerare che queste strutture diventino focolai di degrado, punti ciechi, ripari improvvisati per rifiuti e giacigli occasionali.
In questa mappa di metallo e malinconia, brilla un’eccezione: la cabina di piazza Peyron, trasformata nella “Cabina dell’Arte Diffusa”. Un piccolo punto culturale, dove i cittadini possono prendere un libro e lasciarne un altro, un luogo di scambio che ha ridato vita a ciò che sembrava irrimediabilmente perduto. Lì, la cabina è diventata un oggetto vivo: fotografato, frequentato, riconosciuto. È la dimostrazione pratica che anche una struttura obsoleta può reinventarsi. Ma anche quel progetto ha dovuto fare i conti con la fragilità dello spazio urbano: furti, piccoli danneggiamenti, tentativi di vandalismo, segno che la rigenerazione funziona solo se è sorretta da cura, manutenzione e responsabilità condivisa.
C’è poi un problema che paralizza ogni possibile rinascita: Telecom ha sospeso le donazioni delle cabine. Non è più possibile, almeno per ora, adottarne una. Non possono farlo le associazioni, non possono farlo le scuole, non può farlo il Comune. E questa sospensione congela idee, progetti, possibilità di trasformare un pezzo di passato in un frammento di futuro. Una cabina potrebbe diventare una mini-biblioteca, una micro-galleria, un punto informativo, un modulo turistico, una teca verde con piante o sensori ambientali. Ma finché il blocco non verrà revocato, tutto resta nel limbo.
Eppure, una cosa è certa: le cabine telefoniche non sono nate per diventare rifiuti ingombranti. Sono nate per essere luoghi. E i luoghi, quando smettono di essere utili, possono diventare poetici. O tristi. O pericolosi. Dipende da come vengono trattati.
La storia delle cabine è una storia d’amore con la lentezza. È una storia di attese, di frasi dette a bassa voce, di gettoni consumati tra le dita. Una storia che si è dissolta senza parole, sostituita dalla velocità impalpabile delle notifiche. Ma anche quello è un pezzo della nostra modernità: tutto ciò che ha un tempo, finisce. E quando finisce, resta la responsabilità di decidere come deve finire.
Torino, oggi, ha davanti un compito che non è solo logistico o amministrativo. È un compito culturale. Deve archiviare ciò che è ormai solo degrado e, allo stesso tempo, accompagnare con intelligenza ciò che può ancora generare valore. Deve scegliere quali cabine meritano un destino diverso e quali devono lasciare spazio a qualcosa di nuovo. Deve evitare lo spreco della nostalgia cieca, ma anche l’aridità della cancellazione totale.
Perché le cabine non sono soltanto “cose vecchie”. Sono contenitori di memoria. E ogni volta che ne cade una, cade un piccolo frammento della città che siamo stati.
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