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Sudan, anatomia di una città annientata: cosa è davvero successo a El Fasher

Ospedali svuotati, esecuzioni sommarie, fame usata come arma e un assedio durato oltre 500 giorni: l’inchiesta sul massacro silenzioso che sta ridisegnando il Darfur e spingendo migliaia di persone verso nuove rotte di fuga

El Fasher è caduta: il cuore nero della guerra sudanese e l’onda lunga che arriva fino all’Italia

© UNICEF/Mohammed Jamal A child sits next to a stove in Tawila after his family fled El Fasher. They have faced “unimaginable horrors”, UN agencies report.

El Fasher, una mattina di fine ottobre. I cortili polverosi dell’ospedale “Saudi” sono silenziosi, e chiunque metta piede dentro capisce subito che non è la pace a spiegare quel vuoto. Le porte sbarrate raccontano più di qualunque comunicato, i letti rovesciati disegnano traiettorie di fuga, i pannelli forati dalle pallottole mostrano la direzione da cui è arrivata la paura. Nei corridoi restano ciabatte abbandonate, flebo spezzate, quaderni di turno sparsi come fossero parte di un’indagine lasciata a metà. Poco prima, uomini armati hanno controllato stanza per stanza, lasciando dietro di sé l’eco metallica dei droni e un ospedale trasformato in un archivio di violenze. Fuori, le file degli sfollati continuano a slittare verso ovest, come se la città espellesse il proprio corpo sociale un pezzo dopo l’altro; chi resta fruga tra le macerie alla ricerca di acqua, testimonianza muta di un assedio che non ha mai concesso tregua. Non si tratta di un episodio isolato: è l’istantanea di una capitale regionale – El Fasher, per anni ultimo baluardo del Nord Darfur – che dopo oltre 500 giorni di assedio è stata travolta, tra fine ottobre e inizio novembre 2025, da milizie già note per aver scritto alcuni dei capitoli più oscuri del conflitto sudanese. Una guerra iniziata il 15 aprile 2023 e che, diciannove mesi dopo, continua a consumare vite e comunità senza produrre né un orizzonte né una verità condivisa.

Il numero dei morti resta avvolto nella nebbia delle comunicazioni interrotte, degli ospedali distrutti, delle sepolture improvvisate. Le stime divergenti non mostrano solo confusione: raccontano un Paese senza più strumenti per contare i propri caduti. Le serie di ACLED hanno registrato oltre 28.000 vittime fino a fine 2024, una cifra che molti analisti considerano minimale; altre proiezioni – quelle che includono i morti indiretti per fame, malattie e mancanza di cure – superano le 100.000 unità e alcune arrivano a indicare 150.000 decessi. Le Nazioni Unite scelgono formule più caute e parlano di “decine di migliaia”. In ogni caso, l’indicazione è una sola: il Sudan è diventato la più vasta emergenza umanitaria del pianeta per numero di sfollati (11–12 milioni), per estensione territoriale della crisi e per velocità del collasso dei servizi essenziali, un’escalation che ridisegna i confini e altera gli equilibri in tutta la regione.

Lo scontro è tra le Forze Armate Sudanesi (SAF), guidate dal generale Abdel Fattah al-Burhan, e le Forze di Supporto Rapido (RSF) del comandante Mohamed Hamdan “Hemedti” Dagalo. È il punto di rottura definitivo di un equilibrio politico già logorato da colpi di stato, faide interne e transizioni incompiute. Khartoum e Omdurman diventano presto un labirinto di linee del fronte, mentre il baricentro dei combattimenti scivola su al-Jazirah, Kordofan e soprattutto Darfur, la regione in cui le RSF affondano le loro radici nei retaggi janjaweed del conflitto dei primi Duemila. In questo scenario, El Fasher è l’ultimo nodo di resistenza per le SAF: un anello di campi per sfollati – Abu Shouk, Zamzam, Dar al-Arqam – dove famiglie in fuga da altre province si accalcano come se la città fosse un muro sottile tra loro e il vuoto.

A settembre 2025 una serie di attacchi missilistici e droni colpisce mercati e moschee; il 19 settembre un ordigno centra la moschea di Al-Jamia durante la preghiera del venerdì. Le testimonianze raccontano scene difficili da ricostruire: corpi tra i tappeti, telefoni ancora accesi, parenti che cercano i nomi degli scomparsi sui muri anneriti dal fumo. Tra ottobre e novembre, dopo settimane di combattimenti casa per casa, le RSF conquistano i principali presidi militari. Nelle ore successive all’ingresso in città, fonti civili e sanitarie descrivono esecuzioni sommarie, rastrellamenti di uomini in età militare, violenze negli ospedali e nei centri sanitari. Le vie di fuga verso Tawila diventano corridoi di paura, mentre la distribuzione degli aiuti umanitari rimane al palo: scorte esaurite, depositi svuotati, convogli bloccati ai check-point.

A questo si aggiunge una spirale che combina violenza etnica, collasso dei servizi e una crisi alimentare senza precedenti. L’IPC, l’organismo tecnico che misura l’insicurezza alimentare, a settembre 2025 certifica la Fase 5 – la fame – a El Fasher e a Kadugli. Significa tassi di mortalità oltre le soglie d’allarme, bambini con malnutrizione acuta diffusa, famiglie intere senza accesso minimo a cibo e acqua. In parallelo, l’OMS registra epidemie di colera, morbillo, malaria, prevedibili ma non per questo meno letali in un sistema sanitario praticamente dissolto. La fame, in questo conflitto, non è effetto collaterale: è un’arma, e il suo utilizzo sistematico è visibile nei silos saccheggiati, nelle strade minate, nei mercati svuotati da settimane di assedi.

La logica della guerra frantuma ogni circuito vitale: i raccolti non raggiungono i centri urbani, i prezzi dei cereali impennano, il carburante – necessario per i pozzi, gli ospedali, i trasporti – diventa introvabile. Gli indicatori del WFP parlano di oltre metà della popolazione in insicurezza alimentare acuta, tra i 21 e i 26 milioni di persone, a seconda dei periodi analizzati nel 2025. Molti dei morti non finiscono nelle statistiche dei combattimenti: muoiono per fame, disidratazione, polmoniti, diarree acute, malattie normalmente curabili. È questa somma silenziosa di decessi a fare del Sudan una crisi fuori scala.

I bambini sono i più colpiti. In Darfur e lungo i fronti di Kordofan e al-Jazirah si registra un aumento del reclutamento forzato; alcuni operatori parlano apertamente di ricatti legati al cibo: “se vieni con noi, mangi”. Nei campi, le madri allattano senza latte, i piccoli mostrano edemi da malnutrizione, le scuole sono chiuse o distrutte. Secondo Save the Children oltre tre quarti dei minori in età scolastica non frequentano più. A El Fasher la chiusura degli ospedali cancella programmi essenziali come vaccinazioni e screening nutrizionali, e i focolai di morbillo e polmonite avanzano senza ostacoli. Anche le ferite psicologiche si moltiplicano: bambini che non parlano più, altri che scattano appena sentono un drone, adolescenti che non hanno un luogo sicuro dove dormire.

Un bambino al Centro Tambasi per famiglie sfollate di El Fasher, nel Darfur settentrionale. © UNICEF/UNI569486/Zakaria

Un bambino al Centro Tambasi per famiglie sfollate di El Fasher, nel Darfur settentrionale.

In mezzo a questo vuoto istituzionale, la presenza delle organizzazioni umanitarie diventa l’unico tessuto connettivo rimasto. Save the Children è nel Paese dal 1983 e lavora oggi in 13 Stati, mantenendo attivi ambulatori mobili, programmi nutrizionali, interventi WASH, educazione in emergenza, protezione dell’infanzia e sostegno ai mezzi di sussistenza. Ma gli operatori lo ripetono da mesi: senza accesso umanitario sicuro e un cessate il fuoco verificabile, tutto questo resta un palliativo, una goccia in un deserto che si allarga. L’appello congiunto delle Nazioni Unite e delle ONG, presentato nel febbraio 2025, parla di un fabbisogno di 6 miliardi di dollari per la risposta regionale, con finanziamenti che ancora non raggiungono il necessario.

Intanto i campi attorno a El Fasher diventano simboli della crisi: Zamzam è ormai una città-ombra dove le distribuzioni vengono sospese ogni volta che la sicurezza peggiora; altrove droni e artiglieria colpiscono rifugi e scuole trasformate in centri di accoglienza. L’IPC certifica fame o rischio fame in ampie porzioni del Nord Darfur, creando un circuito perverso in cui gli attacchi generano nuovi sfollati, che a loro volta sovraccaricano campi già al limite, che poi diventano obiettivi militari.

La crisi travalica i confini e arriva fino al Mediterraneo centrale. Secondo i dati UNHCR Italia, nel 2025 i sudanesi rappresentano il 4–5% degli arrivi via mare, numeri piccoli in termini assoluti ma significativi per comprendere la pressione che il conflitto esercita su rotte che passano per la Libia. Molti hanno attraversato più frontiere, venduto tutto, lavorato mesi per pagare un passaggio. Per l’Italia e l’Europa, questa realtà dovrebbe tradursi in percorsi d’asilo rapidi, accoglienza dignitosa, corridoi umanitari e canali legali per chi ha bisogno di protezione.

Sul piano politico e diplomatico, si moltiplicano iniziative e tavoli che, finora, non hanno prodotto tregue durature. Gli Stati Uniti, diversi Paesi arabi e attori africani spingono per negoziati intermittenti. La Corte Penale Internazionale, che ha già perseguito figure coinvolte nei crimini del Darfur, torna a valutare dossier su crimini di guerra e crimini contro l’umanità, ma il tempo della giustizia resta troppo lento rispetto alla velocità della violenza.

Gli eventi di El Fasher parlano un linguaggio chiaro: assedi, attacchi deliberati contro civili, violenze sessuali usate come arma, esecuzioni sommarie. Non serve impantanarsi in dispute semantiche: in alcune zone del Darfur sono evidenti dinamiche di pulizia etnica, cicli di vendetta che superano la dimensione militare e riscrivono la geografia sociale della regione. È su questo che la comunità internazionale dovrebbe misurare la propria credibilità.

Se esiste un luogo che sintetizza il Sudan di oggi, è El Fasher: l’assedio che affama, la caduta che insanguina, la fame che continua, i bambini che attendono una scuola che forse non riaprirà. Ed è da lì che passa il giudizio sul nostro tempo, su quanto abbiamo visto, capito e scelto di ignorare. Il resto verrà dopo. Intanto, nel silenzio di un reparto devastato, resta una domanda che sembra appartenere più alla cronaca giudiziaria che alla geopolitica: quante finestre dobbiamo ancora rompere prima di trovare una via d’uscita?

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