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Bruciano i morti per cancellare il genocidio: Al-Fashir è diventata un forno di corpi

Nella città del Darfur conquistata dalle milizie RSF, medici e operatori denunciano fosse comuni e roghi notturni per far sparire le prove del massacro. Le immagini satellitari di Yale confermano scavi, incendi e blocchi stradali che soffocano la fuga di migliaia di civili. L’ONU parla di atrocità abominevoli, mentre il silenzio del mondo pesa come cenere.

Bruciano i morti per cancellare il genocidio: Al-Fashir è diventata un forno di corpi

Bruciano i morti per cancellare il genocidio: Al-Fashir è diventata un forno di corpi

Una città ridotta al silenzio, fosse improvvisate e roghi notturni: cosa sta succedendo davvero nel cuore del Darfur. Una notte senza luna, il fumo che s’alza da un terreno alla periferia nord di Al-Fashir e il bagliore di un fuoco che non scalda: tra le ombre, sagome trascinate a braccia, poi la terra buttata in fretta. È il racconto, filtrato da telefonate spezzate e messaggi vocali tremanti, che da settimane rimbalza fuori dal Darfur. E oggi ha un’accusa precisa. Secondo la Sudan Doctors Network, le milizie delle Forze di Supporto Rapido (RSF) stanno raccogliendo dalle strade “centinaia di corpi”, bruciandoli o seppellendoli in fosse comuni per cancellare le tracce del massacro seguito alla conquista della città lo scorso 26 ottobre. Un’operazione che i medici definiscono parte di un genocidio in corso.

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Nella loro nota, i sanitari della Sudan Doctors Network parlano di un tentativo disperato di occultare le prove delle uccisioni: corpi prelevati dai quartieri più colpiti, caricati su camion, portati verso fosse improvvisate o roghi. Quel linguaggio — “non è un incidente isolato, ma un ulteriore capitolo di un genocidio a tutto tondo” — non lascia ambiguità sulla gravità della denuncia. I medici evocano la violazione di norme internazionali e religiose che tutelano l’integrità dei cadaveri e il diritto a una sepoltura dignitosa. La ricostruzione trova eco in diverse testate e negli aggiornamenti delle agenzie internazionali. La versione diffusa da ANSA in italiano riporta gli stessi termini e colloca la nota nel contesto della presa di Al-Fashir da parte delle RSF.

La caduta della città, ultima roccaforte dell’esercito sudanese (SAF) in Darfur, ha innescato un esodo immediato e caotico. Le stime dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) sono aumentate di giorno in giorno: da oltre ventiseimila fuggiti nelle prime 48 ore fino a circa ottantaduemila persone in movimento nella prima settimana di novembre. Molti si sono diretti verso Tawila, già sovraccarica di sfollati e priva di servizi essenziali. Le organizzazioni umanitarie segnalano bambini disidratati, feriti senza cure, famiglie spezzate lungo la via di fuga. Secondo testimonianze raccolte sul campo, parte dei civili è morta durante la fuga, per la mancanza di acqua e cibo o per ferite riportate sotto il fuoco. Lo ha riferito la giornalista Hiba Morgan da Khartoum, citando video diffusi sui social dove miliziani si vantano delle esecuzioni: un catalogo di violenze che ha segnato la conquista di Al-Fashir.

A corroborare le accuse arrivano le analisi dei ricercatori dell’Humanitarian Research Lab (HRL) della Yale School of Public Health, che hanno esaminato immagini satellitari delle aree di Al-Fashir dopo l’ingresso delle RSF. Nei rapporti diffusi tra la fine di ottobre e la prima settimana di novembre, gli analisti segnalano attività coerenti con scavi e riempimenti vicino a strutture sanitarie e moschee, ammassi di oggetti compatibili con corpi e zone di forte decolorazione rossa del terreno. In almeno due punti, compresa l’area del cosiddetto Saudi Hospital, sono stati rilevati indizi compatibili con roghi: oggetti carbonizzati e colonne di fumo nero. Un quadro tecnico che si allinea alle denunce sul trattamento dei cadaveri.

Un elemento emerso dalle analisi di HRL riguarda anche i blocchi stradali: con mezzi pesanti, le RSF avrebbero ostruito uno dei pochi assi di fuga verso Garni, stringendo il cappio attorno a un bacino di civili stimati in duecentomila ancora intrappolati. Se confermato, sarebbe un ulteriore indizio di un assedio pianificato per massimizzare la pressione sui residenti. Nei giorni precedenti e seguenti al 26 ottobre, Al-Fashir ha vissuto l’ennesimo ciclo di attacchi su aree civili: campi per sfollati, quartieri, moschee, ospedali. L’Alto Commissario ONU per i diritti umani, Volker Türk, ha denunciato uccisioni sommarie, bombardamenti con droni e artiglieria su aree densamente popolate e perfino su ospedali e luoghi di culto, definendo il comportamento delle RSF un “disprezzo senza fine” per la vita dei civili.

Gli attacchi a campi di sfollati e ospedali sono stati documentati anche da giornali internazionali. Tra il 7 e il 10 ottobre almeno 53 civili sono stati uccisi, inclusi pazienti e personale sanitario colpiti dentro una struttura ospedaliera; un’altra strage in un centro per sfollati ha fatto registrare decine di morti, con vittime bruciate dai colpi esplosivi. Queste azioni hanno prosciugato il sistema sanitario locale, ridotto a cliniche improvvisate. Al quadro militare si è sommato quello umanitario: la fame ormai conclamata in aree come Al-Fashir e Kadugli, secondo le valutazioni IPC citate da autorevoli media internazionali, ha portato la città oltre la soglia della “fase 5”, con tassi di malnutrizione acuta e mortalità da contesto di carestia. La guerra ha spezzato le catene di approvvigionamento e l’accesso umanitario è stato a lungo ostacolato dal blocco degli ingressi in città.

Più testimonianze convergono anche sulla dimensione etnica della violenza, con civili presi di mira “in quanto neri” o appartenenti ai gruppi Masalit, Zaghawa e ad altre comunità non arabe. Volontari e operatori di Medici Senza Frontiere riferiscono racconti di caccia all’uomo durante la fuga: “per essere neri”, dicono i sopravvissuti. È lo spettro dei Janjawid, la matrice storica delle RSF, che riemerge nel Darfur di oggi. La caduta di Al-Fashir ha rafforzato quasi il controllo totale delle RSF sul Darfur, alimentando il timore di una ulteriore balcanizzazione del Sudan. Gli esperti ONU e diversi governi parlano apertamente di uccisioni mirate su base etnica, mentre fonti governative sudanesi stimano in oltre duemila i civili uccisi nei giorni successivi all’ingresso delle milizie in città. Il numero esatto resta incerto, complice il blackout delle comunicazioni.

L’occultamento dei corpi non è solo una barbarie, è una strategia. Senza cadaveri, senza tombe riconoscibili, individuare prove, stabilire responsabilità e perseguire i colpevoli diventa più difficile. Lo sanno bene i giuristi che lavorano su crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Un ricercatore dello Yale HRL, Nathaniel Raymond, ha affermato che le RSF “hanno iniziato a scavare fosse comuni e a raccogliere i corpi in tutta la città”, un’operazione compatibile con la volontà di “ripulire” il teatro di un eccidio. In parallelo, l’Ufficio del Procuratore della Corte Penale Internazionale (CPI) ha avvertito che, se comprovate, le atrocità di Al-Fashir costituirebbero crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Gli investigatori raccolgono da mesi video geolocalizzati, testimonianze e immagini satellitari su attacchi contro civili, stupri ed esecuzioni.

Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha condannato l’assalto di RSF a Al-Fashir, avvertendo del rischio di atrocità su vasta scala e della dimensione etnica della violenza. È un segnale politico che arriva dopo settimane di allarmi dei vertici umanitari delle Nazioni Unite. Parallelamente crescono le pressioni su attori regionali — in primis gli Emirati Arabi Uniti — accusati da più parti di aver sostenuto, direttamente o indirettamente, le RSF negli anni scorsi. A fronte di smentite ufficiali, il tema è entrato nel dibattito internazionale e pesa sui tentativi di mediazione. Sul terreno, tra il 6 e il 7 novembre, le RSF hanno dichiarato di accettare una proposta di tregua umanitaria spinta da un gruppo di mediatori. Ma gli stessi organismi delle Nazioni Unite hanno ammonito che “atrocità abominevoli” potrebbero essere continuate anche dopo questi annunci, con migliaia di civili ancora intrappolati e impediti a lasciare la città. I negoziati, insomma, non hanno fermato il sangue.

La guerra in Sudan non è bianco contro nero. Anche l’esercito regolare è stato accusato in più episodi di attacchi indiscriminati e di violazioni del diritto internazionale umanitario. Ma ad Al-Fashir, negli ultimi mesi, la cifra degli abusi attribuiti alle RSF — droni e artiglieria sui centri per sfollati, esecuzioni a domicilio, moschee colpite durante la preghiera — ha raggiunto un livello documentale senza precedenti. Un report delle Nazioni Unite ha registrato 53 civili uccisi in tre giorni di attacchi; un’inchiesta ha raccolto prove e video sull’esecuzione di pazienti dentro un ospedale; altre testate hanno riferito di 70 vittime in un raid su una moschea. Se i corpi spariscono, restano i pixel dei satelliti, i metadati dei video e le testimonianze dei sopravvissuti.

Molte stime — morti, dispersi, sfollati — sono per forza provvisorie. Il blackout delle comunicazioni e l’insicurezza impediscono conteggi affidabili. Ma è proprio questa oscurità informativa che rende credibile l’accusa dei medici: la rimozione e la cremazione dei corpi come parte di una strategia per rendere inverificabili i numeri, indimostrabili le responsabilità, rinviabile la giustizia. Dire genocidio implica un onere probatorio alto: serve dimostrare il dolo specifico di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. I medici della Sudan Doctors Network usano il termine con fermezza; vari esperti ONU evocano “violenza etnica” su vasta scala; alcuni governi parlano apertamente di pulizia etnica. La storia del Darfur — dalle campagne dei Janjawid negli anni 2003-2008, con 300.000 morti e 2,7 milioni di sfollati — pesa come un precedente. Oggi gli indizi che convergono su Al-Fashir — selezione dei bersagli per il colore della pelle, fosse comuni, sparizioni, roghi — portano la discussione nel territorio più cupo del diritto penale internazionale.

A questo punto resta una domanda feroce nella sua semplicità: se Al-Fashir è stata inghiottita da un massacro, quanti saranno i morti senza nome di cui non sapremo mai? E quanti altri, oggi, rischiano di diventare solo cenere su un terreno che di notte s’illumina di un fuoco che non scalda?

Questo articolo si fonda su una nota della Sudan Doctors Network e sulla sua ripresa da fonti giornalistiche indipendenti, sulle stime e gli aggiornamenti dell’OIM riguardo la popolazione in fuga, sulle dichiarazioni di alti funzionari ONU sui crimini commessi ad Al-Fashir, sulle analisi di immagini satellitari prodotte dallo Yale HRL e verificate da terze fonti giornalistiche, oltre che su testimonianze di sfollati e operatori umanitari raccolte da reporter sul campo. Dove i numeri sono incerti, lo segnaliamo; dove sono confermati, li evidenziamo. E dove i corpi spariscono, ci affidiamo a ciò che resta: le tracce fisiche, i dati, le voci.

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