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Esteri
30 Ottobre 2025 - 10:50
Foto Unicef
All’alba, nel reparto maternità che fino a pochi giorni fa era l’ultimo presidio per partorienti e neonati di El Fasher, i letti sono diventati tavolacci d’obitorio. Il silenzio è interrotto solo dal rumore dei passi tra vetri rotti e flebo penzolanti. Qui, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità e fonti umanitarie, sarebbero state uccise oltre 460 persone tra pazienti e accompagnatori, dopo l’irruzione dei miliziani delle Forze di supporto rapido (RSF) nella città. È l’istantanea più brutale della caduta di El Fasher, capitale del Nord Darfur, piegata da un assedio durato quasi 18 mesi e crollata fra il 26 e il 27 ottobre 2025. Le immagini che arrivano – via terra e dal cielo – parlano di corpi ammucchiati nelle strade, pozze di sangue lungo gli argini di sabbia, convogli militari in formazione dentro quartieri civili. Una violenza così sistematica da risultare “visibile dallo spazio”, come indicano le analisi satellitari indipendenti.

Foto Unicef
El Fasher era l’ultimo caposaldo dell’esercito regolare sudanese (SAF) nel Darfur. Da aprile 2024 la città era stretta in un assedio progressivo: razionamenti, bombardamenti, droni, assalti per linee concentriche fino alla spallata finale. La ritirata del SAF, annunciata dal comando come scelta “per evitare più vittime tra i civili”, ha lasciato oltre 260.000persone – metà bambini – senza scampo dentro un dedalo di macerie e check-point. Nelle prime 48-72 ore dalla presa della città, almeno 26.000 civili avrebbero cercato di fuggire verso Tawila, molti a piedi, senza acqua né cure. La misura della frattura è tutta in un dato: per la prima volta dalla guerra scoppiata nel aprile 2023, il Darfur è passato integralmente sotto RSF, consolidando un’architettura di controllo che taglia la regione dal resto del Paese e alimenta lo spettro di una spartizione de facto del Sudan.
Mentre i collegamenti telefonici e internet andavano in blackout, a riempire il vuoto informativo sono state le verifiche incrociate di laboratori accademici e redazioni internazionali su video, foto e immagini satellitari. Il Humanitarian Research Lab della Yale School of Public Health ha geolocalizzato sequenze con ammassi di corpipresso la grande berma che cinge la città e vicino a strutture sanitarie: elementi coerenti con “uccisioni sistematiche” e “operazioni di sgombero casa per casa”. Le stesse aree mostrano veicoli in formazione tattica e tracce ematiche diffuse. Un’analisi indipendente di Airbus DS visionata da agenzie stampa conferma presenza di “oggetti delle dimensioni di corpi” lungo vie di fuga, pur con i limiti intrinseci dell’osservazione remota. A terra, i video – autenticati e geolocalizzati – includono scene di esecuzioni a bruciapelo, corpi in abiti civili accatastati, prigionieri senza garanzie.
Il quadro delineato da queste fonti convergia con le denunce di Human Rights Watch: “Le violenze sono esplose con la caduta della città: esecuzioni sommarie, maltrattamenti su feriti, detenzioni lungo le vie di fuga”. L’**Alto Commissario ONU per i diritti umani, Volker Türk, aveva messo in guardia già a fine settembre contro il rischio di atrocità su base etnica nel capoluogo del Nord Darfur. Oggi quegli avvertimenti suonano come un bollettino differito.
Tra le sequenze più dure, quelle del Saudi Maternity Hospital di El Fasher. Le ricostruzioni convergenti di OMS, reti di medici sudanesi e testimoni indicano che, dopo l’ingresso a ondate dei miliziani, sarebbero stati uccisi oltre 460 tra pazienti, parenti e personale presente. È un numero parziale, destinato a cambiare con il ripristino dei contatti e l’accesso umanitario, ma sufficiente a definire l’accaduto come uno dei più gravi attacchi contro la sanità commessi in questa guerra. Il **Direttore generale dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha parlato di “orrore” e chiesto la cessazione immediata degli attacchi contro operatori, strutture e ambulanze: solo dall’inizio del conflitto, l’agenzia ha verificato centinaia di attacchi contro la salute in Sudan.
Il colpo al Saudi si inserisce in una lunga sequenza: già a gennaio 2025 un attacco con droni aveva provocato decine di vittime nella stessa struttura; a ottobre altre granate erano cadute sul reparto donne e maternità. Ospedali e clinichedi El Fasher, da mesi, rappresentavano un filo di sopravvivenza per una popolazione allo stremo. Reciderlo significa convertire la città in un deserto sanitario.
La conquista di El Fasher avviene sullo sfondo di una crisi alimentare senza precedenti. Secondo la classificazione IPC, la Fase 5 (carestia) è stata confermata nel 2024 in zone del Nord Darfur, a cominciare dal campo di Zamzam, ed è stata poi proiettata in El Fasher e in altre località fra dicembre 2024 e maggio 2025. Più di 24,6 milioni di persone in Sudan affrontano livelli di insicurezza alimentare acuta pari o superiori alla Fase 3, con almeno 638.000 già in Fase 5 (catastrofe). Il collasso della città e l’interruzione degli accessi rischiano di espandere la fame e aumentare mortalità e malnutrizione infantile, come segnalato da Medici Senza Frontiere: in uno screening del 18-19 ottobre, il 75% dei 165 bambini sotto i cinque anni arrivati da El Fasher è risultato acutamente malnutrito.
La guerra civile iniziata nel aprile 2023 ha prodotto la più grande crisi di sfollamento al mondo: oltre 14 milioni di persone costrette a lasciare casa tra sfollati interni e rifugiati all’estero, con oltre 4 milioni in fuga oltreconfine già a giugno 2025. Nelle ultime settimane, la pressione su corridoi precari come Tawila ha spinto anche organizzazioni come l’UNFPA ad allestire servizi d’emergenza per salute riproduttiva e protezione da violenze di genere, mentre Refugees International e la rete di ONG locali avvertono che “non c’è sicurezza nel restare e nessuna via d’uscita”. Quel che accade a El Fasher non è un’eccezione ma il precipitato di una strategia: assedio, affamamento, fuoco sui civili in fuga.
Le RSF sono l’evoluzione militare dei Janjaweed, i miliziani arabo-darfuriani già protagonisti delle violenze dei primi anni 2000. Sono guidate da Mohamed Hamdan Dagalo (Hemedti); dall’altra parte, il SAF fa capo al generale Abdel Fattah al-Burhan. In mezzo, autorità parallele, governi locali, gruppi armati storici come il SLA-AW, comunità civili e reti di soccorso. La guerra si è sovrapposta a una geopolitica regionale dove non mancano accuse di interferenze esterne e forniture d’armi: le Nazioni Unite e testate internazionali hanno citato ripetutamente denuncesul ruolo di attori stranieri – tra cui EAU – smentite dagli interessati; resta il fatto che la conquista di El Fasher offre alle RSF una continuità logistica verso ovest e i confini con la Libia, con implicazioni su rotte e rifornimenti. Gli Stati Uniti hanno riunito negli ultimi giorni partner regionali per sondare una via d’uscita. Nel frattempo, la Corte penale internazionale ha aperto fascicoli sulle nuove atrocità in Darfur.
El Fasher non è solo un punto sulla mappa. È una cerniera: tra Nord Darfur e rotte transfrontaliere; tra storia dei Janjaweed e presente delle RSF; tra giustizia internazionale e impunità. È, soprattutto, un test per la comunità internazionale: non tanto sulla capacità di condannare, ma su quella di agnire. Nessuna riga scritta, nessun cessate il fuoco annunciato, nessun appello basterà senza accesso effettivo, sicurezza per i soccorsi, strumenti di verifica e sanzioni credibili. Il Sudan è già oggi un laboratorio negativo: assedio e fame sono stati normalizzati come armi; gli ospedali sono diventati obiettivi; la documentazione digitale delle stragi convive con l’impunità.
Di questa città, però, resta anche un’altra geografia: quella delle cucine comunitarie nate per nutrire bambini mai nati, delle ostetriche che hanno continuato a lavorare senza anestetici, dei giornalisti locali che hanno fatto da ponte finché il segnale ha retto, dei medici che hanno scelto di non fuggire. Nomi e ruoli spesso non in grassetto nelle cronache, e che pure sono il primo, fragile, contrappeso all’idea che El Fasher sia perduta per sempre.
Se c’è una speranza concreta, è nell’operatività: ripristinare canali umanitari, fissare linee rosse verificabili, isolare chi spara sui letti d’ospedale, proteggere chi cura e chi racconta. Il resto – le dichiarazioni, i viaggi, le bozze di accordo – verrà dopo. In Sudan, come sempre, dopo significa troppo tardi.
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