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Salute
14 Novembre 2025 - 09:07
Tumore alle ovaie, nel 2025 continua a uccidere nell’ombra: possibile che non esista uno screening adeguato?
Il paradosso del tumore alle ovaie, nel 2025, è brutale: è una malattia che avanza in silenzio mentre la medicina oncologica fa passi avanti quasi ovunque. Eppure, resta difficilissimo da riconoscere in tempo. Negli Stati Uniti, ogni anno, le diagnosi riguardano circa 20.000 donne, una cifra enormemente inferiore rispetto alle 300.000 che ricevono quella di tumore al seno, ma con un impatto devastante sulla mortalità femminile. La domanda resta sospesa: perché continuiamo ad arrivare tardi?
La risposta parte da un dato che gli oncologi ripetono da anni. Il tumore ovarico, nelle sue prime fasi, non manda segnali chiari. Le sue manifestazioni sono così lievi, così confondibili, da sembrare quasi parte della routine quotidiana. Lo puntualizza Sarah Adams, ricercatrice alla V Foundation for Cancer Research e docente allo University of New Mexico Comprehensive Cancer Center, secondo cui nelle fasi iniziali la malattia non dà indicazioni che possano essere interpretate come un campanello d’allarme specifico. Il gonfiore addominale che va e viene, l’alvo che cambia all’improvviso, le alterazioni della funzione vescicale, la sazietà precoce dopo pochi bocconi: segnali che molte donne attribuiscono a stress, diete sbagliate, intolleranze o disturbi gastrointestinali passeggeri.
La ginecologa oncologa Jamie Bakkum-Gomez aggiunge un altro tassello: troppe pazienti minimizzano questi sintomi, convinte che si tratti di problemi benigni, come la sindrome dell’intestino irritabile. E così, mentre la lettura si complica, il tempo scorre. Quando ci si decide a consultare un medico, spesso la malattia non è più al suo esordio.
All’assenza di sintomi evidenti si affianca un’altra criticità: non esiste alcun test di screening per la popolazione generale. Non c’è l’equivalente della mammografia per il seno o del Pap test per l’utero. L’iter diagnostico si avvia solo quando i sintomi diventano sospetti e, a quel punto, si ricorre di solito alla doppia ecografia — pelvica transvaginale e transaddominale — accompagnata dall’esame del sangue per il marcatore CA-125. Strumenti utili, sì, ma incapaci di diventare screening di routine: possono sfuggire ai tumori in fase precoce o generare falsi allarmi con ripercussioni psicologiche e cliniche importanti.
Una delle chiavi che spiegano questa difficoltà risiede in un dettaglio anatomico che gli esperti hanno imparato a osservare con altri occhi negli ultimi anni. Come sottolinea Adams, molte lesioni considerate “ovariche” nascono in realtà nelle tube di Falloppio. È lì, e non nell’ovaio, che si formano alcune alterazioni precancerose difficili da localizzare. Questa origine più nascosta complica diagnosi, prevenzione e perfino la ricerca di terapie mirate, prolungando gli anni di ritardo accumulati rispetto ad altri tumori femminili.

Sul fronte dei fattori di rischio, la genetica gioca un ruolo rilevante ma non totale. Circa il 10-20% dei tumori ovarici è legato a mutazioni ereditarie, in particolare dei geni BRCA, rese tristemente note da molti casi celebri. Ma il restante 75% non ha alcuna correlazione con mutazioni ereditarie note, e questo significa che la gran parte delle donne colpite non apparteneva, almeno in apparenza, a gruppi ad alto rischio. Non bisogna poi pensare che il tumore alle ovaie riguardi solo fasce d’età avanzata: alcune forme più rare, come il carcinoma sieroso di basso grado, fanno registrare una media di diagnosi intorno ai 45 anni.
Quando il rischio genetico è elevato, le opzioni preventive passano per interventi chirurgici importanti, come la rimozione delle tube (salpingectomia) o delle ovaie (ovariectomia). Sono scelte drastiche e mai semplici, che coinvolgono fertilità, qualità della vita e impatto psicologico. Adams insiste sul ruolo essenziale della consulenza genetica, indispensabile per orientare decisioni che non possono essere prese con leggerezza.
Accanto ai limiti diagnostici e all’assenza di screening, c’è un ulteriore problema strutturale: i finanziamenti. Daniel Heller, responsabile del Cancer Nanomedicine Laboratory al Memorial Sloan Kettering, denuncia una carenza di risorse più marcata proprio per il tumore ovarico, nonostante la sua aggressività. Eppure la ricerca sta tentando di colmare questo vuoto con idee nuove. Il laboratorio di Heller sta sviluppando nanosensori, minuscole particelle capaci di generare segnali nel sangue, riconosciuti grazie all’intelligenza artificiale. Oggetti di dimensioni infinitesimali — circa centomila volte più piccoli di un capello umano — che potrebbero, un giorno non lontano, intercettare le tracce molecolari lasciate dal tumore prima che diventi clinicamente evidente. Uno scenario che cambierebbe radicalmente la storia naturale della malattia, riportando la diagnosi a un tempo accettabile. Ma è una prospettiva ancora in fase di sperimentazione.
Che cosa possiamo fare oggi, mentre attendiamo strumenti migliori? Lo dicono gli specialisti: ascoltare il proprio corpo e non ignorare sintomi che persistono nel tempo. Parlare con il medico se qualcosa non torna, soprattutto quando gonfiore, sazietà precoce o disturbi intestinali non si risolvono. Conoscere la storia familiare, perché in alcuni casi può fare la differenza nell’avviare controlli mirati. Non aspettare, perché ogni mese perso rende la diagnosi più complessa.
Questo tema ci riguarda tutti perché mette in luce un problema di sistema. Sintomi sfumati, origine anatomica difficile, mancanza di screening e scarsità di fondi: un insieme che continua a penalizzare le pazienti. Ma la traiettoria della ricerca lascia aperta una speranza concreta: non è più questione di chiedersi se arriveremo a diagnosi più precoci, ma quando. E quel “quando”, oggi, è il vero terreno della battaglia scientifica.
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