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Cinque italiani travolti sull’Himalaya, tragedia sul tetto del mondo

Due valanghe in Nepal cancellano due spedizioni: Caputo, Farronato, Cocco, Di Marcello e Kirchler morti tra neve e burocrazia dei soccorsi

Alessandro Caputo, Stefano Farronato, Paolo Cocco, Marco Di Marcello

Alessandro Caputo, Stefano Farronato, Paolo Cocco, Marco Di Marcello

Si aggrava di ora in ora il bilancio della tragedia in Nepal, dove due diverse valanghe hanno travolto due spedizioni di alpinisti internazionali impegnati sulle vette più impervie dell’Himalaya. A pagare il prezzo più alto, ancora una volta, sono gli italiani: cinque morti e altri dispersi in due episodi distinti che si sono verificati tra il Panbari Himal e lo Yalung Ri, a oltre cinquemila metri di altitudine. Le autorità nepalesi hanno confermato che i soccorsi sono ancora in corso, ma le speranze di trovare sopravvissuti sono minime. Le temperature glaciali e il terreno ostile rendono difficilissimo l’intervento dei team di ricerca, ostacolato, denunciano diversi testimoni, anche da una macchina burocratica lenta e farraginosa.

Il primo dramma si è consumato sul Panbari Himal, montagna di 6.887 metri. Qui hanno perso la vita Alessandro Caputo, 28 anni, maestro di sci a St. Moritz e studente di Giurisprudenza alla Statale di Milano, e Stefano Farronato, 50 anni, tecnico forestale di Bassano del Grappa. I due erano partiti lo scorso 7 ottobre insieme al piemontese Valter Perlino, che si è salvato solo perché un problema fisico lo aveva costretto a rinunciare alla scalata. È stato lui a dare l’allarme, quando non ha più ricevuto notizie dai compagni bloccati al Campo 1, a 5.000 metri di quota, sorpresi da una tempesta di neve. La Farnesina ha confermato il decesso dei due alpinisti citando le autorità locali.

Farronato, appassionato di esplorazioni in ambienti estremi, aveva all’attivo diciotto spedizioni in giro per il mondo. Solo un anno fa aveva attraversato l’Islanda a piedi e con gli sci, trainando slitte per 160 chilometri tra ghiacci e tempeste, in un viaggio simbolico contro lo scioglimento dei ghiacciai. «Davanti alla grandezza delle montagne himalayane ci si sente piccoli, ma è lì che si ritrova l’essenza dell’esplorazione», scriveva prima di partire.
Caputo, invece, aveva condiviso sui social le ultime emozioni dal Nepal: «Il Manaslu, la montagna dello spirito, appare maestoso e silenzioso. Il cuore è pieno di meraviglia, di stanchezza e di quella voglia inesauribile di andare ancora un po’ più in là».

L’altra valanga ha colpito il campo base dello Yalung Ri, nella valle del Rolwaling, a circa 200 chilometri dal Panbari. Secondo l’agenzia Dreamers Destination Treks, tra i sette morti accertati ci sono tre italiani: Paolo Cocco, 41 anni, fotografo ed ex vicesindaco di Fara San Martino; Marco Di Marcello, biologo 37enne di Teramo; e Markus Kirchler, alpinista altoatesino di 30 anni.

Cocco e Di Marcello erano amici e membri della stessa spedizione, con l’obiettivo di tentare la prima salita italiana al Dolma Khang, vetta di 6.300 metri nel parco nazionale del Gaurishankar. In un videomessaggio inviato il 27 ottobre da Kathmandu, avevano salutato così i sostenitori: «Speriamo di riuscire nella scalata intorno al 9 o 10 novembre, ma dipenderà dalle condizioni meteo. È un sogno, e lo facciamo per mio padre e per tutti quelli che amano la montagna».

Il corpo di Cocco è stato recuperato e identificato; la conferma è arrivata dal sindaco Antonio Tavani. Poche ore dopo, il presidente della Regione Abruzzo Marco Marsilio ha annunciato il ritrovamento senza vita anche di Di Marcello, spegnendo le ultime speranze alimentate dal suo segnale radiosatellitare, rimasto attivo per giorni. Nessuna conferma ufficiale, invece, per l’altoatesino Kirchler, che si muoveva con un’altra agenzia, la Wilderness Outdoors.

Tra le altre vittime ci sono anche l’alpinista tedesco Jakob Schreiber, il trekker francese Christian André Manfredi e le guide nepalesi Padam Tamang e Mere Karki. Si sono salvati solo cinque escursionisti, trasportati in elicottero a Kathmandu.

Mentre il dolore cresce in Italia, sul fronte dei soccorsi esplode la polemica internazionale. Diversi sopravvissuti e guide locali denunciano ritardi di oltre otto ore nell’autorizzazione ai voli di emergenza. «Molti dei nostri amici piangevano da ore, implorando un soccorso immediato. Molte vite potevano essere salvate», ha raccontato lo sherpa Nima Gyalzen dall’ospedale. Le testimonianze parlano di una catena di permessi complessa, che richiede l’approvazione di quattro diversi ministeri nepalesi — Turismo, Interni, Difesa e Aviazione Civile — prima di far partire un elicottero. La conferma arriva da Pasang Kidar, guida dell’International Federation of Mountain Guides Associations: «La valanga ha colpito alle 9 del mattino, ma il soccorso è stato autorizzato solo nel tardo pomeriggio».

La Nepal Mountaineering Association ha già chiesto una riforma urgente delle procedure di emergenza. Il suo presidente Phur Gyalje ha dichiarato: «Procedure di soccorso rapide sono essenziali durante le emergenze in alta quota. Lavoreremo con le autorità per evitare che tragedie simili si ripetano».

Cinque italiani — Alessandro Caputo, Stefano Farronato, Paolo Cocco, Marco Di Marcello e Markus Kirchler — hanno perso la vita inseguendo la stessa passione per la montagna. Dalle Dolomiti all’Himalaya, dai ghiacci islandesi alle creste del Panbari, li univa il bisogno di esplorare, di superare il limite, di cercare il silenzio dell’altitudine. Oggi il loro sogno si è fermato nel bianco eterno delle nevi nepalesi. Ma resta la loro eredità: il coraggio di chi sale sapendo che la montagna non perdona, ma insegna ancora — nel modo più duro — cosa significa vivere davvero.

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