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03 Novembre 2025 - 12:00
Ricerca, l’Italia spende solo il 44% dei fondi PNRR: tra burocrazia, disparità territoriali e il nodo del futuro dei ricercatori
Solo il 44% degli 8,5 miliardi di euro stanziati dal PNRR per la ricerca e l’innovazione è stato effettivamente speso tra il 9 novembre 2022 e il 20 maggio 2025. Meno della metà delle risorse pensate per rafforzare il legame tra università, centri di ricerca e imprese ha trovato applicazione concreta. È quanto emerge dalla quinta Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia, presentata a Roma e realizzata da tre istituti del Consiglio Nazionale delle Ricerche in collaborazione con l’Area Studi Mediobanca.
Il documento restituisce un quadro complesso: progressi significativi, come le oltre 12 mila assunzioni di nuovi ricercatori, ma anche ritardi strutturali e un sistema ancora frenato da burocrazia e disparità territoriali. Dal totale dei fondi, circa 3,7 miliardi risultano impegnati.
La parte più consistente, il 60%, è stata utilizzata per il personale, con l’assunzione di 12.000 ricercatori, di cui il 47% donne. Un dato che testimonia un rinnovamento generazionale e un avanzamento nell’equilibrio di genere, ma che porta con sé un problema non secondario: la precarietà. Gran parte dei nuovi contratti, infatti, è a tempo determinato e non esistono al momento strumenti che garantiscano la loro stabilizzazione una volta concluso il programma. Senza misure strutturali, c’è il rischio che, finiti i fondi europei, molti di questi ricercatori siano costretti a lasciare il settore pubblico o a cercare opportunità all’estero.
I finanziamenti si sono concentrati principalmente sulla transizione digitale e sull’aerospazio, che da soli assorbono il 30,3% delle risorse, seguiti dal settore del clima e dell’energia, che ne riceve il 20,6%. Si tratta di ambiti strategici, centrali per il futuro industriale e tecnologico del Paese, ma la concentrazione dei fondi in poche aree rischia di lasciare indietro altri settori, come le scienze umane e sociali o la ricerca di base, che spesso non producono ritorni immediati ma sono fondamentali per la crescita culturale e civile.

Sul fronte territoriale, il rapporto del CNR conferma le profonde disuguaglianze che dividono il Paese. Il 68,7% della spesa rendicontata proviene da progetti realizzati nel Centro-Nord, mentre il Sud si ferma al 31,3%. Tuttavia, in proporzione, nel Mezzogiorno l’impatto occupazionale è maggiore: il rapporto tra nuove reclute e addetti totali alla ricerca raggiunge il 4,1%, e nelle isole arriva al 5,6%, contro il 2% del Nord e il 2,5% del Centro.
Un segnale incoraggiante, che mostra come il PNRR abbia in parte contribuito a ridurre il divario nell’occupazione scientifica, ma anche qui l’assenza di continuità rischia di vanificare gli effetti positivi. Senza un piano nazionale per consolidare i risultati, il Sud potrebbe tornare a perdere terreno una volta esauriti i fondi straordinari. A livello regionale, la Sicilia è in testa per numero di iniziative attive, con dodici progetti finanziati, seguita da Campania, Lazio e Lombardia con nove ciascuna. Marche, Molise, Umbria e Valle d’Aosta non registrano invece alcuna iniziativa, mentre Basilicata e Calabria si fermano a una sola.
È la conferma di un’Italia a più velocità, dove le regioni con maggiori infrastrutture accademiche riescono a intercettare meglio le risorse, mentre le aree periferiche restano escluse per carenza di progettualità o di capacità amministrativa. Accanto alle assunzioni, il PNRR ha permesso di attivare 424 bandi “a cascata”, per un valore complessivo di circa 822 milioni di euro, destinati a sostenere le imprese attraverso università e centri di ricerca. Uno strumento utile per diffondere l’innovazione, ma che rischia di frammentare ulteriormente la distribuzione delle risorse, senza creare un reale sistema di collaborazione tra ricerca pubblica e industria.
La relazione sottolinea inoltre la fragilità strutturale del modello: molti progetti sono temporanei, legati alla durata dei fondi europei, e non accompagnati da piani di sostenibilità economica a lungo termine. Il rischio, spiegano i ricercatori del CNR, è quello di un boom passeggero seguito da un crollo: “un castello costruito su fondamenta provvisorie”. La burocrazia pesa come un macigno.
Le procedure di rendicontazione, complesse e frammentate, variano da regione a regione, rallentando la spesa e scoraggiando le istituzioni minori. È per questo che gran parte delle spese si concentra verso la fine del ciclo di finanziamento: una corsa contro il tempo che rischia di privilegiare la quantità sulla qualità dei risultati. In confronto con i principali Paesi europei, l’Italia resta indietro.
La spesa in ricerca e sviluppo rappresenta circa l’1,5% del PIL, contro il 2,4% della Francia e oltre il 3% della Germania. Eppure, con i fondi del PNRR, il Paese aveva l’occasione per colmare almeno in parte il divario. Le risorse ci sono, ma manca un piano di lungo periodo che trasformi gli investimenti straordinari in strutture permanenti.
Gli esperti chiedono al governo di predisporre un “Piano nazionale per la ricerca post-PNRR”, capace di assorbire le competenze e i risultati maturati. Altrimenti, la stagione di crescita rischia di chiudersi senza lasciare traccia. La relazione del CNR mostra però anche un Paese in movimento, con poli di eccellenza che continuano a produrre innovazione nonostante le difficoltà: dai laboratori di Torino alle startup di Napoli, dai centri aerospaziali campani ai parchi tecnologici emiliani. Ma il sistema rimane fragile, frammentato e dipendente da fondi straordinari.
Il futuro della ricerca italiana si giocherà nei prossimi dodici mesi, fino al 31 dicembre 2026, quando tutti i progetti dovranno essere completati e rendicontati. Quella scadenza sarà il vero banco di prova: capire se il Paese è riuscito a trasformare l’occasione europea in una strategia duratura o se, ancora una volta, i fondi del PNRR saranno stati una parentesi di opportunità sprecate. Per ora restano i numeri e una domanda sospesa: 8,5 miliardi stanziati, 44% spesi, 12 mila ricercatori assunti, 424 bandi attivati. Ma quale sarà il futuro della ricerca italiana quando la grande macchina del PNRR si fermerà?
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