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Spalletti alla Juventus, la toppa peggio del buco: quando l’amore di Napoli diventa un boomerang

Nella prima conferenza da tecnico bianconero il mister spiega le parole pronunciate dopo lo scudetto con il Napoli. Ma la tifoseria partenopea non perdona: “Uomini infami, destini infami”

Spalletti alla Juventus, la toppa peggio del buco: quando l’amore di Napoli diventa un boomerang

Luciano Spalletti lo sapeva: il giorno in cui avrebbe messo piede a Torino con la tuta della Juventus, si sarebbe aperto un fronte di polemiche. E così è stato. Durante la sua prima conferenza stampa da nuovo tecnico bianconero, l’allenatore toscano ha provato a chiarire il senso di quelle dichiarazioni pronunciate a maggio 2023, quando, ubriaco di felicità per il tricolore appena conquistato, disse di non voler più allenare nessun’altra squadra per non dover affrontare il suo Napoli. Una promessa che, a distanza di un anno e mezzo, lo inseguiva come un fantasma.

Incalzato dai giornalisti, Spalletti ha spiegato: «Facevo riferimento solo a quella stagione». Una giustificazione che suona più come un tentativo di chiudere in fretta un discorso imbarazzante. Perché — inutile negarlo — la toppa è peggio del buco. Oggi Spalletti siede sulla panchina della Juventus, e diversamente non avrebbe potuto rispondere: è il nuovo avversario del Napoli, il tecnico della rivale storica. Ma resta l’amaro, l’impressione che un professionista della sua levatura non avrebbe dovuto cadere nella trappola delle dichiarazioni “adolescenziali”, quelle che scaldano il cuore dei tifosi ma poi rischiano di diventare boomerang clamorosi.

Forse, quando pronunciò quelle parole, Spalletti era ancora immerso nella magia di una città che lo aveva amato come pochi. Era il simbolo del riscatto, l’uomo del sogno, il condottiero del terzo scudetto. Napoli lo aveva elevato a mito, e lui — travolto dall’emozione — ha creduto possibile che quell’amore potesse restare intatto per sempre. Ma i tifosi hanno memoria lunga, e lo striscione apparso stanotte nel quartiere Sanità lo dimostra: “Uomini infami, destini infami”, un chiaro riferimento alla sua celebre massima “Uomini forti, destini forti”.

C’è ironia, amarezza e una punta di rancore in quella frase. Ma anche una verità più profonda: nel calcio moderno il romanticismo non paga più. Non esistono più bandiere, e i sentimenti da curva si scontrano con la logica professionale di chi, come Spalletti, vive di sfide e opportunità.

Del resto, oggi sulla panchina del Napoli siede un ex juventino doc, Antonio Conte, uno che a Torino ha vinto tutto e che ora guida gli azzurri con la stessa grinta che aveva da capitano bianconero. E accanto a lui, nel ruolo di dirigente, c’è Lele Oriali, simbolo dell’Inter del Triplete. Nessuno a Napoli sembra turbato da questa presenza “rivale”. È la dimostrazione che le maglie cambiano, le emozioni restano, ma il calcio è un mestiere, non un matrimonio.

Il problema, semmai, è culturale. Ci si illude che l’ex resti “nostro” per sempre, che debba rendere conto delle sue scelte in nome di un rispetto che spesso maschera solo un senso di possesso infantile. È lo stesso atteggiamento visto pochi mesi fa tra gli juventini, quando il mancato ritorno di Conte sulla panchina bianconera aveva scatenato proteste e nostalgie da “vedove inconsolabili”. Gli stessi che oggi invocano coerenza, ieri gridavano “togliamo la stella di Conte dallo Stadium”.

Il paradosso è che le due tifoserie, storicamente opposte, finiscono per assomigliarsi: lo stesso amore totalizzante, lo stesso rancore quando l’idolo cambia maglia. Eppure, se davvero si vuole onorare un passato felice, bisognerebbe imparare a distinguere tra riconoscenza e proprietà.

Spalletti ha regalato a Napoli un sogno irripetibile, un titolo che mancava da 33 anni. E questo, nessuna panchina potrà cancellarlo. Il suo passaggio alla Juventus può far male, ma non toglie nulla a ciò che è stato. Così come il suo arrivo a Torino non dovrebbe essere letto come un tradimento, ma come la scelta di un uomo che vive di calcio e sfide.

Ai tifosi, di qualunque fede, resta una lezione amara ma necessaria: il calcio romantico è finito da tempo, e l’unico rispetto autentico è quello che si riconosce nel ricordo, non nella pretesa. Agli allenatori, invece, il monito di non alimentare illusioni, perché certe parole, dette in euforia, finiscono per tornare indietro come boomerang dolorosi.

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