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Pellicce di nuovo in vetrina: l’orrore travestito da moda

Mentre tornano nei negozi capi “scontati” fatti di animali torturati e uccisi, cresce in Europa il fronte contro l’industria della pelliccia: un sistema in crisi etica, economica e ambientale

Pellicce di nuovo in vetrina

Pellicce di nuovo in vetrina: l’orrore travestito da moda

Le vetrine tornano a riempirsi di pellicce, ma il luccichio dei cappotti non riesce più a nascondere l’odore della morte. Dopo anni di battaglie animaliste e campagne di sensibilizzazione, i negozi ripropongono capi “in saldo”, rilanciando una moda che sembrava destinata a sparire. Eppure, dietro quelle etichette e quei prezzi stracciati, resta una verità che nessuno può più fingere di ignorare: le pellicce sono il frutto di animali uccisi per vanità.

Le immagini e i dati che emergono dai report europei parlano chiaro. Le volpi vengono eliminate con elettrocuzione anale, mentre i visoni vengono soffocati nelle camere a gas. Pratiche brutali e arcaiche, giustificate solo da una logica di profitto che nulla ha più a che fare con la moda o con la bellezza. È una realtà di violenza sistematica, che sopravvive nei fur farm, gli allevamenti intensivi dove migliaia di animali passano la loro breve esistenza in gabbie di filo metallico, ammassati e privati di ogni comportamento naturale.

Ma qualcosa, finalmente, si muove. Un nuovo report presentato all’Europarlamento ha evidenziato come l’industria della pelliccia sia in profonda crisi. Non solo etica, ma anche economica: i costi di produzione, il crollo delle vendite e la crescente sensibilità dei consumatori stanno trasformando il settore in una zavorra per l’economia europea. Perfino la Polonia, quarto esportatore mondiale, ha approvato pochi giorni fa una legge che vietata l’allevamento di animali da pelliccia a fini commerciali, una decisione storica che segue la strada già tracciata da Austria, Paesi Bassi e Norvegia.

Il vento del cambiamento, dunque, soffia forte. E il Parlamento europeo è ora chiamato a rispondere a una domanda semplice ma urgente: può l’Unione Europea tollerare un’industria che uccide milioni di animali ogni anno per motivi estetici?
A chiederne la fine sono 1,5 milioni di cittadini europei che hanno firmato l’iniziativa “Fur Free Europe”, sostenuta da decine di organizzazioni animaliste e da figure del mondo della cultura e della scienza. L’obiettivo è chiaro: ottenere un divieto totale di allevamento e vendita di pellicce in tutta la UE.

Le ragioni, del resto, sono molteplici. Oltre alla crudeltà, il sistema delle pellicce è anche un disastro ambientale. I processi di conciatura e colorazione impiegano sostanze chimiche tossiche come la formaldeide e i cromi pesanti, che finiscono per contaminare acqua, aria e suolo. Gli allevamenti stessi, con i loro rifiuti organici e il consumo massiccio di risorse, contribuiscono a un modello produttivo insostenibile.

Eppure, nonostante tutto, il settore tenta ancora di sopravvivere rilanciando l’immagine della “pelliccia etica”, “certificata” o “naturale”. Un linguaggio di marketing costruito per confondere il consumatore, come se uccidere un animale in modo “controllato” potesse renderlo meno morto. Intanto, le case di moda più importanti — da Gucci a Prada, da Versace a Armani — hanno già bandito le pellicce vere dalle loro collezioni, scegliendo alternative sintetiche e materiali innovativi. La direzione è chiara: il futuro della moda è cruelty-free.

In Italia, però, il dibattito resta aperto. Dopo la decisione del governo Draghi di vietare gli allevamenti di visoni a partire dal 2022, alcuni marchi minori e rivenditori indipendenti hanno continuato a proporre rimanenze di magazzino, riaprendo una ferita che sembrava chiusa. È un ritorno silenzioso, ma inquietante: l’illusione che basti abbassare i prezzi per rendere accettabile ciò che non lo è più.

Chi oggi sceglie di indossare una pelliccia sceglie consapevolmente di ignorare la sofferenza, di chiudere gli occhi davanti a un sistema che tratta la vita come merce. Il fascino della pelliccia, un tempo simbolo di lusso, è diventato il marchio dell’ipocrisia.

L’Europa si trova a un bivio: continuare a permettere l’esistenza di un’industria in perdita, fondata sulla crudeltà, o compiere finalmente un passo di civiltà. Dopo secoli di sfruttamento, il messaggio arriva da milioni di cittadini, da scienziati, da stilisti, da attivisti: non c’è più bellezza nel sangue.

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