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16 Ottobre 2025 - 09:46
Stephan Schmidheiny. Sullo sfondo ex lavoratori della Saca di Cavagnolo
Stephan Schmidheiny, l’imprenditore svizzero erede del colosso Eternit, aveva compreso la portata del pericolo e scelse di non fermarsi. La Corte d’Appello di Torino lo scrive senza esitazioni: conosceva i rischi dell’amianto, ne aveva discusso nei convegni, ne aveva letto le ricerche, ne aveva compreso gli effetti. Eppure – è la sintesi dei giudici – decise di ignorarli. Scelse di continuare a produrre, a far lavorare centinaia di persone in un inferno di polvere invisibile e letale, mentre a Casale Monferrato e nella consociata Saca a Cavagnolo si contavano già i primi morti.
La sentenza d’appello del processo Eternit bis — 600 pagine fitte di dati, ricostruzioni e nomi — parla di una “colpa con previsione”, definizione giuridica che suona come un verdetto morale. “L’imputato – scrivono i giudici – si è rappresentato che dalla gestione potessero derivare numerosi decessi dovuti all’esposizione continuativa e massiccia alle polveri di amianto”. Tradotto: sapeva che quella polvere avrebbe ucciso. Eppure non fece nulla di davvero efficace per impedirlo.
Il collegio di Torino lo ha condannato a nove anni e sei mesi di carcere per omicidio colposo aggravato, riducendo la pena rispetto ai dodici anni inflitti in primo grado a Novara. La responsabilità è stata riconosciuta per 91 morti: un numero che da solo fa tremare, ma che impallidisce davanti ai 392 casi inizialmente contestati e poi in parte prescritti o esclusi. L’imprenditore non si è mai presentato in aula. Ha scelto il silenzio, forse lo stesso silenzio che per decenni ha avvolto le fabbriche di Casale e Cavagnolo.
Per la pubblica accusa – la sostituta procuratrice generale Sara Panelli, con Gianfranco Colace e Maria Giovanna Compare – le prove bastavano per chiedere l’ergastolo per omicidio volontario con dolo eventuale. Ma la Corte ha scelto un’altra via: ha confermato la colpa cosciente, riconoscendo la previsione del rischio, ma non la volontà di accettarlo fino in fondo. È una distinzione sottile, che vale anni di pena e tonnellate di amarezza.
I giudici scrivono che “l’imputato non ha fatto quanto in suo potere per evitare tali eventi”. E ancora: “Ha previsto la possibilità che i lavoratori sviluppassero gravi patologie con esito letale, accettando il rischio del loro verificarsi”. Parole che suonano come una sentenza dentro la sentenza. Perché la consapevolezza, in diritto come nella vita, pesa più dell’ignoranza.
Dalle motivazioni emerge un quadro di lavoro che oggi fa rabbrividire: “Non furono adottate tempestivamente, o solo con molto ritardo, neppure cautele di minore impegno economico”. Si lavorava senza maschere filtranti, con le scope, aprendo i sacchi a mano. Gli scarti venivano frantumati a cielo aperto, le fibre si disperdevano con il vento. “L’aria era impregnata di polveri – scrivono – e la frantumazione produceva nuvole spinte verso le case”.
Processo Eternit
Eppure già dagli anni Sessanta la comunità scientifica sapeva. Bastavano dosi minime per innescare il processo patologico, e nel 1976 Schmidheiny partecipò al celebre Convegno di Neuss, dove le conseguenze dell’inalazione delle fibre vennero illustrate in modo chiaro e documentato. I giudici ricordano quell’episodio come la prova definitiva della consapevolezza: “Era perfettamente a conoscenza delle conseguenze dell’inalazione e avrebbe dovuto attuare un monitoraggio costante”. Ma non lo fece.
Casale Monferrato e Cavagnolo, le due facce piemontesi dello stesso veleno, hanno accolto le motivazioni della sentenza con sentimenti contrastanti. Bruno Pesce, storico sindacalista e memoria vivente della battaglia, lo dice con amarezza alla Stampa: “Molti casi sono stati esclusi. Dopo anni di processi, speriamo che la Cassazione affermi finalmente la giustizia e non un altro fallimento”. E Nicola Pondrano, ex lavoratore e testimone, nota sul quotidiano che “sono stati modificati i parametri di esposizione ambientale, riducendo la distanza da cinque a due chilometri. Una scelta che potrebbe aver escluso molte vittime”.
E poi c’è la parola che a Casale e Cavagnolo nessuno vuole più sentire: prescrizione. L’incubo che ogni volta cancella anni di indagini e di attesa.
La storia giudiziaria di Schmidheiny e dell’Eternit è ormai una saga che attraversa tre decenni. Il primo processo, partito nel 2009, si chiuse nel 2012 con la condanna dell’imprenditore e del belga Louis De Cartier a 16 anni per disastro ambientale, poi diventati 18 in appello. Nel 2014 la Cassazione annullò tutto per prescrizione, cancellando in un colpo la prima verità giudiziaria conquistata con fatica. Il secondo processo, il “Bis”, ha provato a riaprire quella ferita con un capo d’imputazione diverso: non più disastro, ma omicidio. E se la pena si è ridotta, la responsabilità morale – quella no – è rimasta intatta.
Nelle oltre seicento pagine di motivazioni, i giudici delineano un uomo che non può dirsi vittima del tempo. Schmidheiny, scrivono, aveva strumenti e conoscenze per intervenire. Non era un dirigente qualunque, ma il vertice assoluto del gruppo, con poteri decisionali su tecnologie, materiali e sicurezza. Non ignorava per distrazione: ignorava per scelta. E quella scelta, reiterata per anni, ha costruito la più grande tragedia industriale italiana del dopoguerra.
A Casale e Cavagnolo, ogni famiglia ha una storia legata all’Eternit: un padre morto di mesotelioma, una moglie ammalata per aver lavato le tute del marito, un figlio cresciuto con la paura di respirare. “Eternit”, parola che in latino significa “eternità”, qui è diventata sinonimo di morte lenta, invisibile ma certa.
La Saca di Cavagnolo
Nell’aula del tribunale, durante la lettura della sentenza, c’erano i figli di quelle vittime. Molti non c’erano più, portati via dallo stesso male che cercavano di processare. L’amianto ha tempi lunghi, spietati: uccide dopo decenni, quando la memoria dell’offesa sembra sbiadire. È per questo che le parole della Corte hanno un valore che va oltre il codice. “Sottovalutò l’entità del pericolo”, scrivono i giudici. Ma la sottovalutazione, in questa storia, è la sostanza stessa della colpa.
Ora tutto torna davanti alla Cassazione. La difesa, guidata dagli avvocati Guido Carlo Alleva e Astolfo Di Amato, ha già annunciato il ricorso. Si giocherà sugli stessi punti: la qualificazione del reato, la competenza territoriale, il nesso causale tra condotta e morte. Ma la battaglia è anche simbolica: il tentativo di riscrivere la memoria collettiva di un Paese che troppo a lungo ha respirato polvere e silenzio.
Casale e Cavagnolo, nel frattempo, continuano a respirare memoria. Ogni anno si celebra la Giornata delle Vittime dell’Amianto, e ogni volta qualcuno pronuncia un nome nuovo. Nomi che non dovrebbero più esserci, perché le fabbriche sono chiuse da decenni, ma il veleno resta nel suolo, nei tetti, nei polmoni. Eternit non è mai finita. È un processo che non si chiude, un dolore che non si prescrive.
C’è un dettaglio, nelle motivazioni, che riassume tutto: i giudici scrivono che Schmidheiny “ha previsto la possibilità della morte di molti lavoratori, ma ha accettato il rischio del loro verificarsi”. È la fotografia perfetta di un capitalismo che, davanti al profitto, considera accettabile anche la morte.
Quando la Cassazione parlerà, tra qualche mese, non sarà solo un verdetto giuridico: sarà la misura di quanto ancora valga, in Italia, il diritto alla verità. Perché le vittime dell’amianto non cercano vendetta, ma una frase semplice da poter dire ai figli: qualcuno, alla fine, ha capito che non è stato un incidente.
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