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Ambiente
13 Ottobre 2025 - 10:19
Torino e i veleni invisibili, tra ex fabbriche, discariche e amianto: ecco la "mappa della morte"
Torino è stata la culla dell’industria italiana e il cuore produttivo del Novecento. Ma quel ruolo di motore economico, oggi in gran parte scomparso, ha lasciato dietro di sé una lunga scia di ferite ambientali. Oltre un secolo di attività meccaniche, chimiche e metallurgiche ha inciso in profondità sul territorio, trasformando il sottosuolo e le acque in un archivio silenzioso di inquinanti. Secondo i dati aggiornati di ARPA Piemonte e della Città Metropolitana di Torino, la provincia detiene quasi la metà dei siti contaminati dell’intera regione, con oltre 480 procedimenti di bonifica aperti e una concentrazione record nel capoluogo.
Nel solo Comune di Torino si contano 106 aree ufficialmente riconosciute come contaminate, tra terreni, ex stabilimenti e falde acquifere. Moncalieri, Settimo, Collegno e Rivoli seguono con numeri significativi, a testimoniare come l’intera cintura metropolitana viva ancora dentro un paesaggio industriale che non ha smesso di pesare sulla salute e sulla pianificazione urbanistica. Il Decreto legislativo 152/2006, che regola la gestione dei siti inquinati, prevede la messa in sicurezza, la caratterizzazione e il recupero ambientale, ma nella realtà i tempi si allungano, i costi esplodono e le risorse disponibili restano insufficienti rispetto alla vastità del problema.
Emblematico è il caso delle Basse di Stura, a nord del capoluogo, un’area di 220 ettari dove per decenni si sono accumulati rifiuti urbani e industriali. Il terreno è impregnato di idrocarburi, solventi clorurati e metalli pesanti come piombo e cromo. Una bomba ecologica che ancora oggi richiede monitoraggio continuo, con sistemi di drenaggio e barriere idrauliche per impedire la migrazione delle sostanze inquinanti verso la falda. A poche centinaia di metri scorrono il fiume Stura e il Po, due correnti che hanno spesso contribuito a diffondere la contaminazione a valle.
Ma il problema non riguarda solo le grandi aree. Ci sono decine di ex stabilimenti meccanici e galvanici, piccoli impianti chimici e depositi abbandonati, dove la bonifica è ostacolata dal fallimento delle aziende proprietarie o dalla mancanza di un soggetto giuridico responsabile. Questi sono i cosiddetti “siti orfani”, in cui la bonifica ricade interamente sugli enti pubblici. È il caso di diverse aree a Grugliasco, Beinasco e Venaria, dove i Comuni si trovano a gestire procedure costose e lunghe, con la collaborazione della Regione e di ARPA.
Parallelamente, emerge il tema dell’amianto, il materiale che per decenni ha coperto capannoni, scuole e palazzi, e che ancora oggi rappresenta una delle principali emergenze sanitarie. Il Catasto Amianto del Comune di Torino registra oltre 1.000 coperture contenenti cemento-amianto da rimuovere. Alcune sono strutture pubbliche, altre appartengono a privati che faticano ad affrontare i costi di smaltimento. Gli interventi vengono eseguiti da ditte iscritte all’Albo Gestori Ambientali, con controlli affidati a ASL e ARPA, ma la lentezza burocratica e la frammentazione dei fondi rallentano le operazioni.
Per il triennio 2025-2027, la Regione Piemonte ha stanziato 3,1 milioni di euro per la bonifica degli edifici pubblici e per aggiornare la mappatura dei manufatti in amianto. Si tratta di una cifra importante ma ancora insufficiente: secondo le stime, solo nel torinese il fabbisogno complessivo supererebbe i 20 milioni di euro. L’amianto, oltre ai rischi diretti per la salute, rappresenta anche un problema logistico: i materiali rimossi devono essere trattati e smaltiti in impianti specializzati, spesso fuori regione, con costi elevati e tempi lunghi.
A questa eredità si aggiunge il fenomeno dell’abbandono e dello smaltimento illecito di rifiuti industriali. Le aree periurbane, tra Torino e la prima cintura, continuano a essere terreno di scarichi abusivi. ARPA e la Città Metropolitana eseguono controlli periodici e ogni anno individuano decine di discariche illegali, dove si trovano scarti di lavorazioni metalmeccaniche, residui di vernici, fanghi e macerie. Spesso si tratta di appezzamenti marginali, lungo fiumi o strade secondarie, dove lo sversamento passa inosservato fino a quando un cittadino o un volontario non segnala l’anomalia.
Il Geoportale regionale del Piemonte offre oggi una mappatura completa dei siti contaminati, accessibile a tutti i cittadini. Ogni scheda riporta la localizzazione, la tipologia di inquinante, lo stato della bonifica e il soggetto responsabile. È uno strumento di trasparenza ma anche una fotografia impietosa: Torino appare punteggiata da centinaia di zone a rischio, un mosaico di suoli malati che convivono accanto a quartieri riqualificati e parchi urbani.
L’ultimo decennio ha visto crescere il numero di progetti di recupero ambientale. Alcune ex aree industriali, come quella della Michelin o della FIAT Avio, sono state riconvertite in spazi universitari e tecnologici, simbolo di una città che tenta di riscrivere la propria identità. Ma dietro queste operazioni di successo resta una lunga lista di cantieri bloccati, procedimenti sospesi, terreni recintati e invisibili.
Torino, che oggi si candida a capitale della mobilità elettrica e dell’innovazione verde, deve ancora confrontarsi con un passato fatto di sostanze tossiche e falde compromesse, un’eredità che non si cancella in pochi anni. Le bonifiche richiedono tecnologie avanzate, risorse stabili e una regia unitaria, che spesso manca. Molti Comuni minori non dispongono né di fondi né di personale tecnico per seguire pratiche così complesse, e finiscono per affidarsi a consulenze esterne o per rinviare gli interventi.
In questo contesto, la parola “bonifica” non significa soltanto ripulire il terreno, ma anche ricostruire fiducia. Significa restituire valore a un territorio, renderlo di nuovo abitabile, rigenerare aree che per decenni hanno rappresentato solo degrado. Ma finché i veleni del passato continueranno a riaffiorare sotto forma di sostanze chimiche, amianto o scarti nascosti nei campi, il conto di quell’industrializzazione resterà aperto.
Torino è dunque un laboratorio a cielo aperto di memoria ambientale e responsabilità collettiva. Una città che ha imparato a convivere con i propri fantasmi, ma che ora deve affrontarli con una pianificazione più coraggiosa e una visione più ampia. Perché non esiste vera transizione ecologica se sotto i nuovi quartieri e i parchi rinnovati continuano a dormire i residui tossici di un secolo di produzione.
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