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03 Ottobre 2025 - 11:10
Attivisti messi in fila e chiamati “terroristi” da Ben Gvir. L'Italia ringrazia: "Come è umano lei"
La scena è di quelle che resteranno negli archivi della propaganda più spudorata. Nella notte tra giovedì e venerdì, a festività di Yom Kippur concluse, il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir ha fatto il suo ingresso trionfale nella struttura di Ashdod, dove erano detenuti i circa 450 membri della Global Sumud Flotilla, arrestati dopo l’intercettazione in mare. Gli attivisti sono stati fatti inginocchiare, ammanettati con fascette, poi disposti in file indiane come in un rituale di umiliazione collettiva. E davanti a loro, il ministro ha ordinato di accendere le telecamere.
Il risultato è stato un video diffuso a tamburo battente sui social: Ben Gvir che arringa, agita le braccia e urla contro uomini e donne disarmati, definiti più volte “terroristi”, accusati di aver portato non aiuti umanitari ma “droga e alcol per fare festa”. Nessuna prova, solo parole costruite per lanciare l’ennesimo messaggio politico interno. Uno spettacolo grottesco, confezionato apposta per la rete, con tanto di ringraziamento al governo israeliano che, parole sue, avrebbe usato “la minor forza possibile”.
Dietro questo show, però, si nasconde una realtà che il diritto internazionale rende lampante. La Flotilla tentava di aprire un corridoio umanitario verso Gaza, azione prevista dalle Convenzioni di Ginevra e dunque tutelata. Israele, che quelle convenzioni le ha firmate, si permette invece di agire come se la legge non esistesse, imponendo un blocco navale illegale e trattando cittadini occidentali come se fossero combattenti armati. Non solo: le testimonianze raccolte dagli avvocati di Adalah, che hanno assistito i fermati, parlano di condizioni detentive indegne di un Paese che si autodefinisce democratico.
Gli attivisti raccontano di aver intonato “Free Palestine” al momento dell’irruzione del ministro. La reazione è stata immediata: ginocchia a terra, fascette ai polsi e la messinscena che conosciamo. Non una gestione dell’ordine pubblico, ma un’operazione propagandistica costruita sulla pelle di chi aveva scelto la via della nonviolenza. La logica è chiara: estendere agli occidentali lo stesso metodo repressivo riservato da decenni ai palestinesi.
E mentre Ben Gvir trasformava un atto illegale in palcoscenico politico, c’è un altro dettaglio che brucia. L’Italia. Il nostro governo, anziché alzare la voce contro la violazione delle convenzioni internazionali, ha preferito ringraziare Israele per il “limitato uso della forza”. Un ringraziamento che suona come la più grottesca delle comparse fantozziane: “Come umano lei”, avrebbe detto il ragioniere piegato al potere, con lo stesso tono servile.
Ecco il paradosso. Da un lato un ministro che costruisce la sua carriera sull’insulto, sul disprezzo e sull’uso mediatico della violenza. Dall’altro un Paese, il nostro, che invece di difendere i propri cittadini e i principi di diritto internazionale, accetta l’umiliazione come gesto di cortesia. La Flotilla resterà un simbolo di resistenza civile. Ma ciò che resterà impresso, oltre ai volti stremati seduti a terra, è la fotografia di due governi: uno che calpesta le leggi e si vanta di farlo, e l’altro che ringrazia, sorridendo.
La Flotilla per Gaza – e in particolare l’ultima, chiamata Global Sumud Flotilla – è un’iniziativa internazionale di attivisti, organizzazioni non governative e realtà della società civile che, a intervalli regolari dal 2010 in poi, organizzano spedizioni via mare dirette verso la Striscia di Gaza.
L’obiettivo dichiarato è duplice: da un lato portare aiuti umanitari – medicinali, attrezzature mediche, beni di prima necessità – in un territorio sotto blocco navale israeliano dal 2007, che limita severamente l’ingresso di merci e materiali; dall’altro lato, esercitare una pressione politica e mediatica sul tema dell’assedio, denunciando la sua incompatibilità con il diritto internazionale e con le Convenzioni di Ginevra, che prevedono il diritto delle popolazioni civili a ricevere assistenza.
Il carattere umanitario si lega quindi a due dimensioni: quella materiale, ossia la consegna di beni essenziali per la popolazione di Gaza, e quella simbolico-politica, cioè rompere un isolamento denunciato come illegale e privo di giustificazioni quando colpisce in maniera indiscriminata la popolazione civile.
Le flotte non sono composte da navi da guerra ma da imbarcazioni civili, con equipaggi di volontari, attivisti, politici e personalità del mondo culturale, che si prestano proprio per testimoniare la natura pacifica dell’iniziativa. Israele, però, considera queste missioni come azioni di provocazione politica, e in più occasioni ha intercettato e sequestrato le navi prima che raggiungessero Gaza, accusando gli organizzatori di voler sfidare il blocco più per ottenere visibilità che per consegnare reali aiuti.
In sintesi: la Flotilla è un’azione nonviolenta di disobbedienza civile che mira a portare beni di prima necessità a Gaza e, allo stesso tempo, a denunciare pubblicamente l’effetto dell’assedio sulla vita di oltre due milioni di persone.
La storia delle Flotille per Gaza è cominciata nel 2010, con un’idea semplice e allo stesso tempo dirompente: rompere con la forza della nonviolenza l’assedio imposto da Israele sulla Striscia. Quell’anno, sei navi civili salparono con aiuti umanitari e oltre settecento attivisti provenienti da trentasei Paesi. A bordo della più grande, la Mavi Marmara, c’erano centinaia di volontari turchi, parlamentari, giornalisti. La missione si concluse nel sangue: nella notte del 31 maggio, le forze speciali israeliane abbordarono la nave in acque internazionali. Dieci attivisti morirono sotto i colpi dei militari, decine furono feriti. L’immagine di quei corpi riversi sul ponte scosse il mondo e aprì una crisi diplomatica tra Ankara e Tel Aviv, segnando uno spartiacque. Da quel giorno la parola “Flotilla” non è più stata solo sinonimo di aiuti umanitari, ma di scontro geopolitico.
Negli anni successivi la rete di attivisti non si è fermata. Al contrario, ha continuato a organizzare traversate da porti europei e mediterranei. Nel 2011 altre navi tentarono di salpare, ma la maggior parte fu bloccata prima ancora di lasciare la Grecia, schiacciata dal peso delle pressioni israeliane sui governi locali. Nel 2012 la nave Estelle, battente bandiera finlandese, partì da sola con a bordo deputati e attivisti: anche in quel caso l’intercettazione israeliana arrivò puntuale, e la barca fu trascinata ad Ashdod. Nel 2015 fu la volta della Freedom Flotilla III, con la Marianne di Göteborg: stesso copione, stesso esito.
La ripetizione degli episodi, pur senza morti né feriti come nel 2010, ha avuto un effetto cumulativo. Ogni volta l’azione israeliana ha ribadito l’esistenza di un blocco navale che il diritto internazionale non riconosce, ogni volta le immagini degli attivisti trascinati via hanno riportato sotto i riflettori la vita quotidiana di oltre due milioni di persone intrappolate a Gaza. Nel 2018 un nuovo convoglio partito dalla Scandinavia attraversò mezzo continente per tentare di arrivare via mare, ma fu di nuovo fermato. Persino la pandemia non riuscì a spegnere quella rete, che dal 2021 ha ripreso a riorganizzarsi.
E così si arriva ad oggi, con la Global Sumud Flotilla — “sumud” in arabo significa resistenza — una nuova missione che ha visto imbarcarsi centinaia di attivisti internazionali. Non più un’unica nave, ma decine, tra cui piccole imbarcazioni civili con equipaggi misti e simbolici, capaci di incarnare la dimensione umana della protesta. A bordo c’era anche Roberto Ventrella, orafo napoletano di 86 anni residente in Svizzera, che ha scelto di affrontare il mare come atto di testimonianza politica. Il loro obiettivo dichiarato è identico a quello della prima Flotilla: portare beni umanitari — farmaci, cibo, materiale medico — e soprattutto denunciare un assedio che dura da diciotto anni.
Israele continua a descrivere queste missioni come azioni di provocazione politica, “spettacoli mediatici” più che operazioni umanitarie. Eppure, al di là delle narrazioni contrapposte, il punto resta quello fissato dal diritto internazionale: il blocco navale di Gaza è illegittimo, perché impedisce la libera circolazione di beni e colpisce indiscriminatamente i civili. Le Flotille nascono per ricordarlo. A costo di arresti, umiliazioni, sequestri, persino morti.
Quindici anni dopo la Mavi Marmara, la cronaca si ripete con altre navi, altri nomi e altri volti. Ma il significato resta lo stesso: dimostrare che la solidarietà può solcare il mare, sfidando un assedio che vorrebbe ridurre Gaza a un angolo dimenticato. E ricordare a governi e opinioni pubbliche che, al di là delle accuse, resta un fatto semplice e incontrovertibile: portare aiuti umanitari a una popolazione sotto assedio non è un crimine, ma un diritto sancito dalle stesse convenzioni che Israele ha firmato.
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