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Non abortire, ti regaliamo una lavatrice: così il Piemonte compra le scelte delle donne con fondi pubblici

Passeggini, affitti e bonus spesa in cambio della maternità: dietro il “fondo vita nascente” si nasconde una strategia antiabortista che trasforma la povertà in strumento di controllo sociale

Non abortire

Non abortire, ti regaliamo una lavatrice: così il Piemonte compra le scelte delle donne con fondi pubblici

Una lavatrice per convincerti a partorire. Un passeggino per tenerti lontana dalla clinica. Uno psicologo da 600 euro per sostenerti mentre lui ti ha lasciata e il bambino nascerà cieco. In Piemonte si chiama “fondo per la Vita Nascente”, ma la sostanza è un’altra: soldi pubblici usati per dissuadere le donne, tutte, dal ricorrere all’aborto, anche in condizioni di miseria, isolamento e violenza.

A gestire questa macchina non sono i servizi pubblici, ma associazioni del mondo pro vita, in gran parte legate ai Centri di aiuto alla vita, che da anni fanno militanza antiabortista. Il meccanismo è semplice quanto spietato: la Regione eroga fondi, le associazioni li distribuiscono a chi accetta di proseguire la gravidanza, e le donne si trovano così costrette a scegliere tra un aiuto immediato e un diritto che rischia di restare solo sulla carta. È una politica pubblica costruita sulla pressione psicologica, non sulla libertà.

Il fondo – voluto e difeso dall’assessore alle Politiche sociali Maurizio Marrone – ha erogato nel 2023 un milione di euro. Di questi, oltre 326 mila sono stati spesi in affitti, bollette e mutui, mentre il resto è servito per latte in polvere, passeggini, marsupi, piumoni, integratori, consulenze psicologiche e anche pubblicità al progetto. Il tutto senza parametri oggettivi, senza trasparenza nei criteri di selezione, e con modalità arbitrarie che cambiano da caso a caso.

Nel quadro tracciato dalle rendicontazioni delle associazioni, emergono storie che raccontano molto più di qualsiasi propaganda: donne incinte di uomini violenti, madri sole con figli già a carico, famiglie sotto sfratto, straniere senza lavoro né assistenza. A ognuna, una lista della spesa più o meno lunga, a seconda della disponibilità e della discrezionalità della singola realtà territoriale. Una riceve due passeggini, l’altra un cuscino per allattare. Una si ritrova con una lavatrice, un’altra con una busta di biscotti. In cambio, tutte una cosa sola: la rinuncia all’aborto.

Qui non si tratta di aiutare chi ha scelto di diventare madre e ha bisogno di un sostegno. Qui si parte da un presupposto opposto: la gravidanza non si interrompe, mai. A qualunque costo. Anche quando manca tutto. Anche quando c'è la paura. Anche quando c’è la disperazione. Il fondo non è neutro: condiziona, orienta, manipola. Concede aiuti solo se la donna rinuncia alla propria autodeterminazione, trasformando il suo corpo in un terreno di battaglia ideologica.

Il paradosso è che tutto questo avviene con soldi pubblici, sottratti al welfare universale. Quei fondi potrebbero finanziare consultori laici, servizi sociali, assistenza domiciliare, sostegno alle famiglie già formate. Potrebbero aiutare chiunque, senza condizioni. E invece vengono canalizzati verso strutture private e ideologizzate, che promuovono una visione univoca e colpevolizzante della maternità. Una visione in cui l’aborto non è una possibilità, ma un fallimento da evitare a tutti i costi.

La cosa più grave, però, è l’ipocrisia del sistema. Si parla di libertà di scelta, ma si finanziano solo le opzioni che piacciono a chi governa. Si parla di maternità consapevole, ma si nascondono le condizioni materiali reali delle donne che si rivolgono a queste associazioni: disagio, povertà, solitudine, violenza. Nessuna di loro è libera, se l’unica alternativa all’aborto è un carrello della spesa.

Chi si oppone al diritto di scelta, spesso lo fa perché non riesce ad accettare che qualcuno possa prendere decisioni diverse dalle proprie. E così, invece di lavorare per un sistema che metta tutte le possibilità sul tavolo, si crea un ambiente in cui l’aborto diventa l’ultima risorsa, la più difficile, la più stigmatizzata. Anche quando è la più giusta per quella donna, in quel momento.

Legalizzare l’aborto è stato un atto di civiltà. Oggi, garantirlo davvero significa difendere lo spazio di libertà che quella legge ha creato. Spazio che non può essere eroso da politiche paternaliste, moraliste e profondamente inique. Ogni donna ha diritto a un supporto concreto, non a elemosine condizionate alla maternità forzata. La libertà non si compra con un bonus da 600 euro. Si costruisce con il rispetto, con l’accesso ai servizi, con la fiducia nelle capacità delle persone di decidere per sé.

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