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Cirio e Riboldi pronti a impallinare Schael: in Piemonte chi difende la sanità pubblica deve morire

Il commissario che ha chiuso la pacchia dell’intramoenia allargata, scoperchiato un buco da 55 milioni e scelto la trasparenza viene fatto fuori in pieno agosto. La giunta di centrodestra elimina chi difendeva il pubblico per salvare un sistema malato di interessi e compromessi

Schael, l’uomo che non chiude gli occhi di fronte ad un buco di 55 milioni di euro

Schael

Incredibile ma vero. Il paradosso sanitario in salsa piemontese si consuma tutto in silenzio (o quasi). In pieno agosto, mentre i cittadini fanno i conti con liste d’attesa interminabili e un sistema sanitario che arranca, la giunta di centrodestra guidata da Alberto Cirio con l’assessore alla Sanità Federico Riboldi, pare aver scelto la via più semplice: cacciare il commissario della Città della Salute (Molinette per intenderci) Thomas Schael, nominato appena sei mesi fa. Cioè proprio colui che aveva cominciato a rimettere in ordine conti, prestazioni e visite.

Troppo indipendente, troppo netto nelle sue scelte, troppo deciso nel voler restituire centralità alla sanità pubblica.

Il suo mandato era iniziato con due segnali immediati. La prima circolare, quella che aveva fatto sorridere alcuni, riguardava il divieto totale di fumo in tutte le strutture ospedaliere: non solo sigarette, ma anche elettroniche, vietate perfino nei cortili e sui balconi. Non una misura cosmetica, ma la dimostrazione che intendeva governare sul serio, riportare disciplina e rispetto in un’azienda ospedaliera che conta oltre 11 mila dipendenti.

La seconda, ben più importante, riguardava l’attività intramuraria dei medici, l’intramoenia, con una demarcazione netta fra pubblico e privato e la ricerca di stanze per obbligare i camici a non abbandonare gli ospedali nel pomeriggio, cose che ormai facevano e continuano a fare senza patemi d'animo.

Ed è qui che ha toccato il nervo scoperto. Dal decreto Bindi in avanti, alla Città della Salute e in tutti gli ospedali piemontesi, infatti, si tollera l’intramoenia cosiddetta “allargata”: i medici possono ricevere pazienti a pagamento, durante l'orario di lavoro, in decine di cliniche private convenzionate, con il risultato che le agende pubbliche si intasano mentre all’esterno le visite scorrono rapide, a volte anche in nero (tanto chi controlla?), ma a caro prezzo per i cittadini. Schael ha rotto il giocattolo: dal 1° aprile stop a questa pratica, i medici devono svolgere l’attività libero-professionale solo dentro le strutture pubbliche. Un taglio netto, che ha fatto imbestialire chi si arricchisce e aperto gli occhi ai cittadini e ai malati trasformati in semplici "clienti".

Non si è fermato... Guardando ai bilanci, Schael ha trovato ciò che nessuno ha mai voluto vedere o, meglio, mostrare. Nel consuntivo 2024 un disavanzo strutturale che passa dai -41 milioni ipotizzati a -55 milioni effettivi. Un buco enorme, accumulato negli anni, che ha fatto emergere pratiche contabili poco chiare. E che ha fatto Schael? Ha detto: "Fermi tutti!" Non ha firmato un bel cavolo di nulla, ha chiesto un controllo esterno e ha deciso di rivedere 12 anni di contabilità.

Una bomba, tanto più perché la questione è finita sul tavolo della Procura. Altro che gestione “di routine”: per la prima volta qualcuno si è assunto la responsabilità di dire che i conti non tornano e che il giochino non può andare avanti.

Naturalmente, questa serie di mosse altro non potevano fare che incrinare i rapporti interni. Con i sindacati le tensioni sono esplose quasi subito. Ad accendere la miccia la gestione unilaterale dei turni per smaltire le attese e la sospensione dell’intramoenia allargata senza concertazione.

Tutto bene non fosse arrivata la mazzata di un giudice del Tribunale del lavoro di Torino che con un decreto del 4 agosto, ha accolto il ricorso della federazione Cimo-Fesmed, dichiarando antisindacali queste decisioni.

La condanna è stata pesante: ripristino delle procedure ordinarie, obbligo di pubblicare il provvedimento negli ospedali per 30 giorni, pagamento di circa 6.600 euro di spese legali.

A questo punto Schael ha scelto una strada diversa da quella che i politici e i manager tradizionali imboccano di solito. Non ha fatto muro, non ha impugnato la sentenza, non ha cercato cavilli. Il 9 agosto ha inviato una lettera di distensione ai sindacati ribadendo la volontà di rilanciare il dialogo istituzionale. Ha proposto la convocazione di tavoli dopo la pausa estiva per programmare insieme la riduzione delle liste d’attesa e il riordino della libera professione. In pratica, ha detto: ripartiamo, costruiamo un terreno comune, mettiamo al centro i cittadini. Una mossa politica che evidentemente ha irritato chi a livello regionale aveva già deciso che Schael doveva andarsene.

Nel frattempo si è mossa la macchina del fango. Si è cominciato a parlare apertamente di un sostituto, con i sindacati che indicavano il direttore generale Carlo Picco come figura adatta a prendere le redini. Ciliegina sulla "torta" o sulla "cacca" un comunicato dell'assessore Riboldi, evidentemente scritto tra un reel su "Instagram" e uno su "Facebook" (lo chiamano il tiktoker) per confermare tutto. 

Tutt'intorno un panorama da pesci lessi. L’opposizione? Così brava a sfraccassarci i marroni sui tempi di attesi e raccontare cose note a tutti, non ha detto un parola. PD, Movimento 5 Stelle e persino Alleanza Verdi e Sinistra incapaci di commentare, di prendere posizione. Non un moto di piazza, non una denuncia corale: solo voci isolate, incapaci di incidere.

Eppure è tutto terribilmente chiaro: Schael non è stato cacciato per errori di gestione, ma perché incompatibile con un sistema che vive di silenzi e di compromessi, dove sono tutti responsabili, destra e sinistra, e soprattutto dove tutti tremano per quei bilanci degli ultimi dodici anni che nessuno vuole davvero guardare a fondo.

Insomma, in questi giorni la tensione è esplosa in tutta la sua chiarezza. Da una parte un commissario che scrive ai sindacati per ricominciare e che parla di programmazione condivisa per abbattere le attese e rimettere ordine nell’intramoenia. Dall’altra un assessore "influencer" che ne prepara il siluramento, un governatore che asseconda la linea, e un sistema politico che, anziché difendere il cambiamento, lo soffoca. Intorno, il solito gossip: riunioni riservate, vertici per scegliere il successore, e un agosto che ancora una volta diventa il mese dei cambiamenti più pesanti fatti passare sotto silenzio.

La cronologia di questi sei mesi racconta tutto. Il 1° marzo l’insediamento con le prime circolari, il 1° aprile lo stop all’intramoenia allargata, la primavera segnata dalla scoperta del disastro nei conti e dal rifiuto di firmare il consuntivo, il 4 agosto la condanna del Tribunale del lavoro, il 9 agosto la lettera ai sindacati per ricucire, l’11 agosto la revoca dell’incarico. Sei mesi per dimostrare che un’altra sanità è possibile, sei mesi per essere fatto fuori da chi in questa sanità malata ci sguazza.

Sta di fatto che Schael ha osato troppo. Ha toccato i soldi, i bilanci, i privilegi. Ha detto che i medici devono curare i pazienti negli ospedali pubblici, non nelle cliniche private a pagamento. Ha chiesto trasparenza sui conti e rispetto delle regole. Ha persino aperto al dialogo dopo le sentenze, scegliendo la via istituzionale. Schael è un corpo estraneo. Per questo verrà licenziato.

Insomma, Schael è stato il primo commissario che ha provato a rimettere a posto la sanità pubblica piemontese. Ed è per questo che Riboldi e Cirio lo vogliono mandare a casa, nel momento in cui la sua battaglia stava entrando nel vivo. Ai cittadini resta la certezza che il suo siluramento non è una vittoria per la sanità, ma l’ennesima sconfitta per chi ancora sperava che il diritto alla cura fosse più importante dei conti in tasca di pochi primari privilegiati che abbandonano gli ospedali fin dal primo pomeriggio per farsi gli affari propri a suon di visite da 100, 150, 200 euro l’una.

La sensazione che resta è amara: Schael se ne va portando con sé l’idea di un’altra sanità e adesso c'è pure la prova provata che cambiarla sarà difficile. Troppi soldi, troppi privilegi, troppe lobby dei medici...

RISPOSTA DELL’ASSESSORE ALLA SANITÀ DELLA REGIONE PIEMONTE FEDERICO RIBOLDI ALLA LETTERA DI ALCUNI SINDACATI SULLA GOVERNANCE ALLA CITTÀ DELLA SALUTE DI TORINO

In primis, voglio rassicurare che non c’è nessuna crisi di governance. L’Assessorato alla Sanità e la Direzione Generale dell’Assessorato stanno governando la situazione direttamente e, in condivisione con l’Università degli Studi di Torino, si procederà quanto prima a chiudere e dirimere la situazione dell’AOU Città della Salute e della Scienza di Torino, un’eccellenza nazionale che quanto prima dovrà tornare ad avere quell’equilibrio fondamentale per continuare ad essere un punto di riferimento per la cura, l’assistenza e la ricerca.

La decisione di cambiare la governance è stata determinata in ultima istanza dalla sentenza del Tribunale del Lavoro che ha dato ragione al ricorso presentato da una organizzazione sindacale (CIMO) contro l’AOU.

Inutile e desolante la strumentalizzazione politica dei sindacati della dirigenza firmatari della lettera, che non hanno partecipato alla vertenza sindacale presso il tribunale del lavoro. Difatti un frangente delicato come questo, dovrebbe invece spingerli ad un atteggiamento più responsabile e costruttivo.

Ma detto questo è doveroso sottolineare che:

nessuna influenza esterna ha portato alla decisioni assunte fino ad oggi, che sono state dettate esclusivamente dalla presa d’atto dell’assenza della serenità necessaria per portare all’interno di Città della Salute il cambiamento che avevamo auspicato e per il quale avevamo incaricato una figura professionale di riconosciuta professionalità come l’attuale CommissarioThomas Schael aggravate dalla condanna di cui sopra;

rispediamo al mittente le accuse di tutela di consorterie o simili, che riteniamo offensive di una condotta improntata al rispetto delle regole, la promozione della legalità, della trasparenza e della meritocrazia che proseguirà con estrema determinazioni di tutte le direzioni;

l’accusa di scarsa autonomia politica e di condizionamenti poi è assolutamente ridicola, prova ne sia la libertà totale con la quale l’assessorato regionale alla Sanità si sta muovendo nell’ambito delle nomine e delle revoche, quando le ritiene opportune per il bene superiore della sanità pubblica.

L’Assessore alla Sanità, Federico Riboldi

Le "balle" di Riboldi...

LA RISPOSTA...

E poi c’è Riboldi. Quello che ti guarda dritto negli occhi e con la faccia più tosta del mondo ti assicura che “non c’è nessuna crisi di governance”. Peccato che, nel frattempo, abbia appena licenziato il commissario della più grande azienda sanitaria del Piemonte. Ma tranquilli, tutto fila liscio, il clima è “sereno e disteso”. Già: disteso come una sdraio sotto l’ombrellone.

Perché la verità è che in sei mesi, e soltanto sei, Thomas Schael ha fatto ciò che nessuno aveva mai osato: vietare ai medici di sparire nei pomeriggi per correre nelle cliniche private ad arrotondare lo stipendio, scoperchiare un buco da 55 milioni di euro nei conti, rifiutarsi di firmare bilanci opachi e chiedere un controllo esterno. In altre parole, ha fatto il commissario, non il burattino. E la risposta dell’assessore? “Nessuna influenza esterna ha portato alla decisione”. Certo. E allora come mai i nomi dei sostituti circolano da settimane, con Carlo Picco già pronto sulla rampa di lancio? Non serve Sherlock Holmes: basta guardare il calendario di agosto e capire che si è scelta la solita tecnica estiva. Colpo di mano tra un tuffo e un mojito, così la gente non se ne accorge.

Riboldi si riempie la bocca con parole come “trasparenza, meritocrazia, rispetto delle regole”. Ma intanto caccia proprio chi ha avuto il coraggio di imporre trasparenza sui conti, regole sull’intramoenia, meritocrazia in un sistema incrostato da clientele e privilegi.

E poi il capitolo sindacati: da cabaret. Secondo lui, i firmatari della lettera sarebbero colpevoli di “strumentalizzazione politica”. Politica? No, assessore: quella è la sua arte preferita. Ha preso una sentenza di lavoro e l’ha trasformata nell’alibi perfetto per liberarsi di un commissario scomodo. Il solito giochetto: inventarsi un pretesto e sbatterlo in faccia ai cittadini come se fossero tutti boccaloni.

E la ciliegina sulla torta: la presunta “libertà totale” dell’assessorato. Peccato che questa libertà coincida, guarda caso, con la difesa dei medici più furbi, con il silenzio sui conti traballanti, con l’eliminazione di chi aveva provato a fare pulizia. Una libertà comodissima: quella di proteggere il vecchio sistema, non di cambiarlo.

La verità è semplice: Schael non lo si licenzia per la sentenza, ma perché è un corpo estraneo. Non fuma nei corridoi, non ride delle barzellette, non chiude un occhio sui bilanci, non piega la testa davanti alle lobby in camice bianco.

E allora, assessore, risparmi le prediche sulla “legalità” e sulla “serenità”. I cittadini hanno capito benissimo: Schael se ne va non perché ha sbagliato, ma perché ha osato. E voi, al contrario, restate lì a difendere la pacchia di pochi privilegiati, mentre i malati continuano ad aspettare mesi una visita che nel privato possono fare domani mattina. Basta pagare.

Grazie Schael

C’è un sapore amaro, quasi di beffa, in questa vicenda: Thomas Schael è ancora formalmente commissario della Città della Salute, ma tutti sanno che il suo destino è già scritto. Le voci fatte filtrare nel silenzio ovattato di agosto non erano casuali: servivano a preparare il terreno. Non lo hanno ancora cacciato, ma lo hanno già condannato. È il più antico dei giochi di palazzo: logorare un dirigente con indiscrezioni mirate, isolarlo pezzo dopo pezzo, e poi presentare la sua defenestrazione come un evento naturale, quasi inevitabile.

Che Schael debba cadere è chiaro a chiunque. Ha avuto l’ardire di dire che nei bilanci esistono voragini da 55 milioni e che dodici anni di contabilità devono essere rivisti da un controllo esterno. Ha avuto l’ardire di definire l’intramoenia allargata uno scandalo, di ribadire che i medici devono restare negli ospedali pubblici a curare i pazienti e non a rincorrere parcelle nelle cliniche private. Ha avuto persino il coraggio di tendere la mano ai sindacati, scrivendo loro dopo una sentenza sfavorevole per proporre tavoli di confronto volti a ridurre le liste d’attesa e riportare ordine nella professione medica. Troppo, decisamente troppo, per un sistema che vive di silenzi calcolati.

E così si è passati al secondo tempo della commedia: la delegittimazione preventiva. I nomi dei possibili successori già circolano nei corridoi, le voci di fiducia ritirata si susseguono senza mai diventare atti formali. Schael diventa così un “morto che cammina”, un dirigente sospeso in un limbo dove la condanna è già scritta, ma l’esecuzione è solo questione di calendario.

Il punto, però, è uno: questa è una condanna politica, non amministrativa. Non c’entrano i numeri, non c’entrano le sentenze, non c’entrano nemmeno i rapporti sindacali. C’entra che Schael è incompatibile con un sistema che vive di equilibri fragili tra pubblico e privato, di compromessi continui, di opacità che non devono essere illuminate. Lui ha provato ad accendere la luce, e il meccanismo – quello vero, quello che comanda – si è messo in moto per stritolarlo.

Ancora più inquietante è il silenzio generale che accompagna questa agonia. La giunta Cirio tira le fila, l’assessore Riboldi orchestra il colpo di grazia, ma dall’opposizione? Nulla. Nessuna battaglia, nessuna difesa della sanità pubblica, nessuna voce capace di dire che Schael non può essere abbandonato così. Tutti attendono che il tempo faccia il suo lavoro, che l’estate copra con la sabbia dell’indifferenza un’operazione che in qualsiasi altro momento avrebbe sollevato proteste e indignazione.

Intanto, i cittadini restano inchiodati alla realtà: mesi di attesa per una visita, reparti impoveriti, medici che si volatilizzano dopo pranzo per rimpinguare i conti in ambulatorio privato. Schael, ufficialmente, è ancora al suo posto, ma nei fatti lo hanno già cancellato. È l’agonia di un commissario che ha osato troppo e la dimostrazione plastica di come, in Piemonte, non si puniscano gli errori, ma il coraggio.

Sì, Schael è ancora lì. Ma lo hanno già licenziato nei corridoi e sulle pagine dei giornali. Ed è questione di ore prima che l’epilogo arrivi. Il messaggio che passa è devastante: chi prova davvero a difendere la sanità pubblica non ha futuro.

Un’ultima cosa. Io e Thomas Schael non ci siamo mai incontrati. Ma fin dal primo giorno, questo giornale ha sostenuto la sua linea sull’intramoenia. Perché era la stessa battaglia che da anni conduciamo: riportare i medici dentro gli ospedali, rimettere i cittadini al centro, dire basta ai privilegi trasformati in diritto. Per questo, a costo di sembrare retorici, una parola la dobbiamo scrivere: grazie, Schael.

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