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L’Europa indaga: dietro i prezzi stracciati di Shein e Temu ci sono tossicità e schiavitù

Indagine UE su Shein e Temu: violazioni sicurezza prodotti, rischi per consumatori, concorrenza sleale denunciata dalle aziende europee

L’Europa indaga

L’Europa indaga: dietro i prezzi stracciati di Shein e Temu ci sono tossicità e schiavitù

Shein e Temu sono ovunque. Basta aprire un social, fare una ricerca online o scorrere una vetrina digitale per trovarsi inondati da offerte irresistibili, abiti a 2 euro, set di cosmetici a 1,50, accessori da cucina a pochi centesimi. Una rivoluzione che ha cambiato il volto del commercio online mondiale, spinta da prezzi stracciati, logistica iperefficiente e campagne pubblicitarie martellanti. Ma dietro questa patina luccicante, la Commissione europea ha aperto ufficialmente gli occhi. E ora alza il livello di guardia.

Un'inchiesta avviata da Bruxelles pone al centro accuse pesantissime: prodotti pericolosi per la salute, violazioni delle normative europee sulla sicurezza, totale assenza di trasparenza sugli standard qualitativi. I primi risultati fanno rabbrividire: succhietti per neonati che si rompono facilmente, impermeabili contenenti sostanze chimiche tossiche, cosmetici venduti senza alcun controllo dermatologico, occhiali da sole senza filtri UV, pantaloncini con lacci che possono strangolare un bambino. Articoli già segnalati da Safety Gate, il sistema europeo di allerta rapida per i prodotti pericolosi.

Ma il problema è ben più profondo di un paio di occhiali difettosi o di un rossetto contenente ingredienti non dichiarati. Il vero nodo è il modello economico su cui si regge l’intero impero commerciale di Shein e Temu: una gigantesca macchina industriale cinese che produce milioni di capi e oggetti ogni giorno in condizioni spesso fuori da ogni norma etica e ambientale.

Shein, nata nel 2008 e oggi tra le prime app di shopping al mondo, basa il proprio successo su un sistema chiamato “real-time retail”: in pratica, nuovi articoli vengono caricati ogni giorno sulla piattaforma in base agli algoritmi che analizzano i trend dei social. La produzione è ultra-veloce, con tempi di realizzazione che in alcuni casi non superano le 48 ore. Ma a che prezzo? L’azienda è stata più volte accusata di violazioni sistemiche dei diritti dei lavoratori: turni massacranti, salari da fame, nessuna tutela sindacale. In alcune inchieste internazionali si è parlato di 14-18 ore lavorative al giorno per meno di 3 euro l’ora. In pratica, schiavitù moderna camuffata da “efficienza”.

Temu, lanciata solo nel 2022 ma già diventata un colosso globale, replica lo stesso schema, con l’aggravante di non essere nemmeno un produttore diretto ma un intermediario tra consumatori occidentali e microfabbriche cinesi. Il suo meccanismo di vendita si basa su un pricing spinto all’estremo, dove nessun controllo è garantito, e i fornitori lavorano in condizioni opache, sotto pressione costante per ridurre tempi e costi.

Questa strategia ha conseguenze evidenti anche sul mercato europeo. Le aziende locali, costrette a rispettare standard ambientali, di sicurezza e di lavoro rigorosi, denunciano una concorrenza sleale devastante. Come può una PMI italiana competere con una t-shirt venduta a 1,29 euro spedita direttamente dalla Cina, senza pagare dogana né IVA grazie a una serie di scappatoie fiscali? Eppure questo è il cuore del problema: l'illusione del risparmio.

Perché quei prodotti che sembrano convenienti, in realtà costano carissimi. Costano in salute, quando si scopre che contengono metalli pesanti, allergeni, o agenti cancerogeni. Costano in dignità, perché dietro ogni click c’è un lavoratore invisibile che non può scioperare, non ha ferie, non ha diritti. Costano in sostenibilità, perché la produzione continua a sputare CO₂ in atmosfera senza alcuna compensazione ambientale. E infine costano in economia locale, distruggendo intere filiere artigianali ed industriali, soprattutto in paesi come l’Italia.

Il problema non è solo cinese. Il problema è nostro, di chi compra senza porsi domande, di chi tollera che la tossicità di un prodotto valga meno di un like su Instagram, di chi continua a pensare che la moda a basso costo sia “democratica”, quando invece è solo una filiera opaca che arricchisce pochi e rovina moltissimi.

La Commissione europea ha promesso interventi. Ma al momento, oltre alla denuncia, si muove a fatica. L’assenza di regole comuni per l’e-commerce internazionale, le difficoltà di controllo doganale e la pressione diplomatica della Cina, frenano ogni risposta concreta. Eppure, la strada è segnata: serve una riforma strutturale del commercio digitale, una verifica obbligatoria dei prodotti, e soprattutto l’eliminazione dei vantaggi fiscali che permettono a queste aziende di invadere l’Europa con merce tossica e sottocosto.

Finché non si interviene in modo deciso, continueremo a vivere in un paradosso: acquistare a pochi centesimi oggetti che valgono poco, durano nulla e inquinano tutto. E accettare, ogni volta che lo facciamo, di essere complici inconsapevoli di uno sfruttamento che ci appare lontano ma ci riguarda da vicino.

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