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Cronaca

Cristina Seymandi, 26 indagati per odio sessista: chi sono gli haters col diploma

Sono uomini, quasi tutti padri di famiglia, con laurea o diploma: ora rischiano il processo per insulti sessisti. Venti procure indagano ancora

Svolta nel caso Seymandi: identificati 26 cyberbulli "insospettabili"

Sui social si mostrano con le mogli, con i figli, con il sorriso tirato a festa delle grandi occasioni. Scrivono frasi sdolcinate il giorno della festa della mamma, postano le foto del battesimo, degli anniversari, della gita in montagna. “Padri amorevoli, mariti devoti, uomini perbene”. Poi, sotto un post su Cristina Seymandi, scrivono: “È una zocc...”.

Sono in ventisei. Tutti italiani. Tutti, tranne due, uomini. La metà vive al Nord, l’altra al Sud. Quasi tutti con un titolo di studio medio-alto: diplomati, laureati, molti con impieghi pubblici o rispettabili. Insegnanti, imprenditori, poliziotti, sindacalisti, artigiani, addetti alla sicurezza. Nessun profilo criminale alle spalle. Ma un tratto comune li inchioda: sono tutti accusati di diffamazione sessista.

A scovarli è stata la Polizia Postale del Piemonte e Valle d’Aosta, su ordine della gip di Torino Lucia Minutella, che sei mesi fa ha rigettato la richiesta d’archiviazione della Procura sul caso Seymandi. Lei, l’ex compagna di Massimo Segre, scaricata pubblicamente durante una cena con amici e finita nel tritacarne mediatico, era stata ricoperta di insulti online. Roba pesante: “mign...”, “zocc...”, “escort da 700 mila euro”.

Il pm Roberto Furlan ha identificato i responsabili. Venti procure in tutta Italia sono ora al lavoro sulle posizioni trasmesse da Torino. Solo per sette di loro proseguiranno le indagini sotto la Mole. Una donna tra gli indagati soffre di disturbi psichiatrici. Le altre sono madri, padri, coniugi, impiegati e insospettabili.

Massimo Segre e Cristina Seymandi

Il primo ad essere beccato è un sindacalista romano di 60 anni, giacca e cravatta in foto profilo, che ha scritto: “È una zocc...”. Poi c’è il “Reverendo”, pseudonimo da tastiera dietro cui si nasconde il vicepresidente della Croce Rossa di una cittadina del Nord Italia. Due figli, un ruolo istituzionale. Ha postato: “Oltre che andava a prendere..., vuole avere pure ragione... ma vaff...”.

A Napoli, uno degli indagati festeggia i 16 anni della figlia con cuoricini e dediche, poi digita: “Là buddista, qui budd...”. Da Cesena, un fan della resilienza e del body building insulta con la stessa leggerezza con cui posta selfie in palestra. A Milano, un libero professionista si mostra in posa con una donna e due bambini biondi. Poi, sotto un articolo, scrive: “La signora ci va a letto con gli avvocati”.

Il catalogo degli odiatori continua con un pensionato laureato di Vicenza, un decoratore del Vicentino (“a lei piace così”), un venditore di profumi della cintura torinese (“convivendo col suo uomo va con...”), un poliziotto penitenziario sardo che ama le Porsche (“da mign...a buddista”), un uomo di Lucca che colleziona album di famiglia online, ma sotto un post di Famiglia Cristiana sbotta: “Io la chiamo zocc...”.

Poi ci sono i più “colti”. Un esperto d’arte laureato a Ca’ Foscari, un insegnante di Borgosesia laureato in archeologia, un editore di Napoli, laureato in storia medievale, che si è superato: “La donna che paghi prima è la donna che paghi meno... 700 mila euro per una escort che non ti garantisce neanche l’esclusiva... pessimo affare”.

Per lui, la Procura di Napoli ha già emesso un decreto penale di condanna. Un segnale chiaro: si può, si deve perseguire anche l’odio da tastiera.

“È un passo fondamentale contro chi usa stereotipi per denigrare le donne, e diffonde una cultura tossica, sbagliata, pericolosa”, dice Cristina Seymandi, che ha scelto di andare fino in fondo, sostenuta dall’avvocato Claudio Stratta. La sua è la prima battaglia legale collettiva in Italia contro l’odio sessista.

I profili social dei 26 sono stati setacciati dagli agenti. Ogni post, ogni frase, ogni commento è finito nel fascicolo. Non conta solo l’insulto in sé, ma il contesto: sono tutti insulti basati sul genere, scritti perché è una donna, perché è una ex, perché è “infedele”.

Per la gip Minutella, il dolo c’è, ed è evidente: “Non si tratta di critiche o opinioni, ma di attacchi personali aggravati da discriminazione”.

È la normalità che fa paura. La faccia pulita dell’odio. Quella che pubblica foto in spiaggia con la famiglia, e che un attimo dopo, dietro la tastiera, colpisce con parole velenose.

Una lezione che oggi riguarda Cristina Seymandi, ma domani potrebbe toccare a qualsiasi donna. Soprattutto in un Paese dove, troppo spesso, l’insulto sessista è considerato solo una “battuta”.

Ora la palla passa alle 20 procure. Se anche metà dei procedimenti porteranno a condanne, sarà un segnale forte: la rete non è un far west. E i “padri di famiglia” che pensano di poter insultare le donne a colpi di “zocc...” e “mign...” dovranno risponderne davanti a un giudice.

Perché l’odio, anche se travestito da opinione, resta un crimine.

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