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Ombre su Torino
15 Dicembre 2024 - 22:13
A ragionare per stereotipi, frasi fatte e banalità, chissà quante volte a Fabrizio è stato detto che, a 17 anni, ha tutta la vita davanti. Chissà quante volte gli è stato detto di non lamentarsi ma anzi di godere della sua condizione di privilegiato, di figlio di industriale o, semplicemente, di figlio di una generazione che non ha visto gli orrori della guerra come i propri genitori e che si trova davanti un mondo che sembra poter essere conquistato anche solo allungando le mani.
Forse è troppo piccolo per cosa gli accade, ma non fa mistero di un vuoto interiore che lo divora. Lo esterna con un’emotività fuori dal comune che si traduce in una passione sfrenata per i lirici greci e in una produzione poetica toccante, perennemente in bilico tra delirio astratto e amara realtà.
Critica il mondo come gli altri ragazzi della sua età, come i suoi amici dalle idee forse velleitarie ma ispirate a un profondo senso di giustizia, a disagio in una società che sembra agevolarlo senza che lui debba fare nulla di particolare per meritarselo. In aggiunta a questo ha due problemi. Un demone che, fisicamente, lo sta facendo a pezzi un giorno dietro l’altro e il fatto che, dopo una breve telefonata ai suoi, sparisce nel nulla. Sono le 20 del 12 settembre 1978.
In un mondo parallelo ma pericolosamente convergente vivono tre giovani. Si chiamano Biagio Pelosi, Ferdinando Crapanzano e Domenico Capobianco. La figura più interessante è indubbiamente il primo.
Pelosi, che al momento dei fatti ha 24 anni, è un radiotecnico con un negozio a Nichelino che fino a qualche tempo prima aveva appiccicata addosso l’etichetta di bambino prodigio. Le cronache narrano che, dodicenne, era in grado di costruire orologi da solo, ingranaggio dopo ingranaggio, assemblando anche la cassa, il cinturino e tutti gli altri pezzi. Iscritto all’istituto per periti elettronici Pininfarina, tuttavia, molla al terzo anno e si apre la sua bottega, affiancandola a un commercio molto più remunerativo: lo spaccio d’eroina. In quella stessa estate del 1978 Pelosi e Crapanzano iniziano un lungo viaggio tra l’Italia e l’estero a bordo della fiammante Porsche nera del primo. Vanno in giro per dodicimila km e, nell’ultima tappa prima del ritorno a Torino, finiscono ad Amsterdam per comprare una piccola partita d’eroina. Erano riusciti a tirare su sei milioni di lire scontando delle cambiali ma, in Olanda, trovano qualcuno più furbo di loro che non gli consegna la droga, facendoli tornare indietro senza soldi e con il debito ancora da saldare. C’è bisogno di un’idea.
Mercoledì 13 settembre 1978, ore 16.
La telefonata di un cacciatore di conigli indirizza i carabinieri a una cabina dell’Enel in un campo nella periferia di Torino, quasi al confine con Nichelino. Qui, in un sotterraneo già spesso utilizzato da spacciatori per gestire grossi traffici lontani da occhi indiscreti, i militi reperiscono un corpo ancora caldo ma cadavere. Ha gli occhi bendati, mani e piedi imprigionati da funi ed è in un lago di sangue. Qualcuno lo ha calato li sotto, lo ha riempito di botte e gli ha sparato due colpi di pistola in testa. La salma è giovane e, soprattutto, addosso, ha due bustine piene di polvere bianca. Si risale al suo nome in un paio d’ore: è Fabrizio Pellegrin, 17 anni appena e una sfrenata passione per la poesia greca.
Indagini rapide e puntigliose ricostruiscono gli ultimi giorni del ragazzo e la sua personalità. Il demone che, fisicamente, lo sta facendo a pezzi un giorno dopo l’altro è proprio l’eroina.
Aveva iniziato a farne uso, quasi per curiosità, circa nove mesi prima, forse senza rendersi conto delle conseguenze a cui poteva andare incontro: un buco sulle braccia per tentare di riempire il buco nero che aveva scavato nella sua anima. Da qualche tempo sembrava averci dato un taglio. Ne aveva parlato con suo padre, gli aveva chiesto aiuto per uscirne e il genitore lo aveva prima fatto visitare da diversi dottori e poi lo aveva spedito per due mesi in un collegio di Domodossola per prepararsi agli esami di riparazione. Per sessanta giorni non tocca neanche un grammo di stupefacente, mostrandosi anzi studioso, allegro e disponibile con tutti.
Gli inquirenti, però, sembrano intravedere, dietro a questa facciata ripulita, una doppia vita nella quale la droga è ancora presente eccome. Viene accostato a un giro di tossici che si muovono tra piazza Carlo Alberto (che allora è una vera e propria piazza di spaccio come ci si immagina a Scampia) e piazza Gran Madre, dove, per altro, sarebbe stato visto per l’ultima volta la sera del 12 settembre. Le prime testimonianze ed ipotesi gli appiccicano addosso l’etichetta di “cavallino”: in buona sostanza non sarebbe stato né un pusher né un “piazzista” ma solo uno dei tanti ragazzini a cui spacciatori più in alto nella catena criminale avrebbero affidato cinque, massimo dieci dosi da vendere e un paio da tenere per sé.
Prima si vocifera che sarebbe stato ammazzato perché voleva uscire da questo giro, poi che non aveva pagato una vecchia partita di narcotici, infine che avrebbe svelato il nome di qualche grosso trafficante. Nessuno di questi moventi, in ogni caso, sembrerebbe giustificare la brutta fine che ha fatto. E infatti è proprio così.
Il 19 settembre è Domenico Capobianco a dipanare la matassa. Sette giorni prima Pellegrin si trova proprio con lui in un bar di piazza Gran madre, quando, intorno alle 22,30 vedono arrivare Pelosi e Crapanzano sulla 1100 del padre di quest’ultimo.
Le due coppie si salutano e partono tutti insieme verso un’abitazione in via Scarsellini di proprietà di un’amica di Pelosi. A Fabrizio è stato detto che è arrivata dell’eroina di altissima qualità e che avrebbe potuto assaggiarla e poi acquistarne un po’ per spacciarla e tirare su qualche migliaio di lire. Una volta giunti sul posto, il diciassettenne si infila l’ago in vena, finendo quasi subito in uno stato di semi-incoscienza. È in quel momento che Pelosi e gli altri gli fanno una proposta, esplicitando il piano che hanno escogitato per rientrare del bidone che avevano preso in Olanda. “Fabrizio” gli dicono “sappiamo che tuo padre è un industriale. Facciamo finta che ti abbiamo rapito, gli chiediamo 500 milioni e ce li dividiamo”.
Pensavano di avere davanti un debole, un drogato fiaccato dall’ennesima “spada” che avrebbe accondisceso a ogni loro richiesta ma la reazione di Pellegrin è sorprendente. Il ragazzo prima si mette a ridere pensando a uno scherzo e, poi, sentitosi tradito da quelli che considerava suoi amici, inizia ad urlare, a dimenarsi, a insultarli pesantemente tutti e tre.
Ma non solo, li minaccia apertamente, tra il serio e il canzonatorio: “Io non ci sto proprio, siete proprio dei fessi. Appena mi liberate vi denuncio tutti”. E poi sorridendo: “Se non volete che racconti tutto uccidetemi. Tanto lo so che non siete capaci di tanto”.
Finito l’effetto della dose, i tre lo caricano in macchina e lo portano alla cabina dell’Enel dove è stato ritrovato cadavere. Lo bendano perché gli dicono che stanno per incontrare un personaggio che non deve riconoscere ma probabilmente è solo l’ultimo momento di vigliaccheria: hanno deciso di ammazzarlo dalla sera prima ma non hanno il coraggio di guardarlo negli occhi. Lo legano, lo pestano, tentano per un’ultima volta di convincerlo a simulare il sequestro ma alla fine si arrendono e Pelosi lo fredda con due colpi di 7,65 in testa.
In tribunale Crapanzano e Capobianco forniscono un’ampia e dettagliata confessione che, quantomeno, evita ad entrambi l’ergastolo. Pelosi, da par suo, invece, nega per tutto lo svolgimento del processo, nonostante fosse schiacciato da numerosi alibi forniti rivelatisi tutti falsi e, soprattutto, dalle testimonianze dei due compari che lo videro coi propri occhi tirare il grilletto della pistola appoggiata sulla fronte di Fabrizio Pellegrin. Nel 1985 arrivano le condanne definitive in cassazione: carcere a vita per Pelosi, 22 anni per Crapanzano e 17 per Capobianco.
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Il cadavere di Pellegrin
Appunti in versi di Fabrizio Pellegrin
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