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Ombre su Torino

L'omicidio del tassista Sestilio Contini tra San Francesco al campo e Rivarossa

Una notte di primavera senza stelle ha reso ancora più lugubri i dintorni del cimitero di Rivarossa, quasi al confine con San Francesco al Campo, a circa 30 km da Torino.

L'omicidio del tassista Sestilio Contini

Oscurità totale.
Una notte di primavera senza stelle ha reso ancora più lugubri i dintorni del cimitero di Rivarossa, quasi al confine con San Francesco al Campo, a circa 30 km da Torino.

1600 anime che a quell’ora, è più o meno l’1 e mezza del 23 maggio 1999, sono già tutte a dormire. C’è un silenzio spettrale. L’idillio viene spezzato dallo stridere degli pneumatici di un’auto che inchioda, scarica un uomo e riparte a tutta velocità. Il malcapitato cade a terra malamente ma poi riesce ad alzarsi e a mettersi a camminare.

Il taxi della vittima

Non sta bene. Mette i piedi uno davanti all’altro con fatica, inciampa, perde l’equilibrio. A ogni passo di quella specie di tragica attraversata del deserto lascia dietro di sé enormi macchie di sangue che formano una lunga scia rossastra. Si tiene la mano su una ferita che ha all’altezza del collo e, nel tentativo di chiedere aiuto, riesce a fare 100 m e ad arrivare alla provinciale che collega il paesino a Ciriè.

Qui stramazza ai bordi della strada e viene notato da una signora che è ancora in giro perché ha da poco chiuso Il Mandracchio, un famoso ristorante della zona. La donna non si ferma ma chiama il marito, Ivo Massa, che corre immediatamente avvertendo anche l’ambulanza e i Carabinieri. Quando arrivano i sanitari è l’1,46 ma è troppo tardi. Sestilio Cottini, tassista di 63 anni noto come “Londra 37” attinto da un colpo di calibro 22 al collo, ha smesso di respirare.

Sestilio Cottini

Un minuto.
Quella notte il turno di Cottini doveva finire all’1 ma alle 0,59 al centralino del 5737 (di cui la vittima per altro era stato fondatore 18 anni prima) arriva una chiamata che lo manda in corso Giulio Cesare 144, a Torino. Qui carica due uomini che chiedono di essere portati a Ciriè.

Massimo Izzo e Demetrio Maria Polimeni non dovrebbero essere li.

Entrambi tossicodipendenti, il loro piano per quella notte è trovare il modo di procurarsi 200 mila lire, raggiungere in discoteca un loro amico, Michele Turrisi, e utilizzare quei soldi per un po’ di sballo a buon mercato.

Originariamente vorrebbero svaligiare un bar gestito da due anziani ma scoprono che era il giorno di chiusura ed è per questo che ripiegano su un colpo facile, almeno nella loro testa: una rapina a un tassista.

Non possono sapere che quello che li è andati a prendere, da qualche tempo, va in giro con una 38 nel portaoggetti. Come tanti colleghi è stato vittima di aggressioni, un paio di volte gli hanno chiesto l’incasso della giornata puntandogli un coltello o una siringa e ormai, a pochi mesi dalla pensione, gira sempre armato durante i turni di notte.

I suoi passeggeri sembrano dei ragazzi normali che ridono e scherzano finché, al bivio per il cimitero di Rivarossa, Massimo Izzo gli urla di fermare la macchina, gli punta la pistola al collo e gli chiede i soldi. Il colpo facile prospettato dai due malviventi si tramuta in un caso di cronaca nera perché Cottini, questa volta, reagisce.

Impugna la rivoltella ma non riesce a girarsi verso gli aggressori. Spara, ma Polimeni gli gira il braccio e il proiettile va a conficcarsi nel cruscotto. A quel punto Izzo preme il grilletto della propria arma, scende dal taxi e, insieme al complice, scaraventa giù il proprietario.

Nella concitazione si portano via 150 mila lire e il cellulare della vittima. È il 1999, i telefonini esistono da qualche anno ma ancora non sono diffusi come qualche anno dopo. Non è raro che, ai tempi, la Telecom registrasse le conversazioni tra dispositivi mobili per valutare la qualità del servizio. Questo, ovviamente, è un particolare che Izzo e Polimeni non possono conoscere. Telefonano a Turrisi, raccontano tutto nei particolari: la loro confessione è lì, registrata su nastro.

Vengono arrestati tutti e tre il giorno dopo e in manette finisce anche un quarto uomo, Gino Quarta. Questi è il titolare di un bar in piazza Bottesini, il Plaza, già finito sui giornali perché, qualche mese prima, vi fu ucciso davanti a pistolettate Luciano Isoletta, 22 anni.

Il bar Plaza

È qui che la banda si forma e progetta le proprie imprese criminali e dove, in un capannone sul retro, veniva conservata l’arma del delitto. Quarta riferisce che i ragazzi gliel’avrebbero rubata ma i Carabinieri non gli credono e sbattono anche lui al fresco.

A processo, nell’ottobre 2000, la drammaticità della ricostruzione dei fatti si scontra con le surreali spiegazioni addotte dagli imputati per tentare di sminuire il loro gesto. Se per la PM Gabriella Viglione si è trattato di “Un omicidio brutale, di inaudita violenza. E, soprattutto, inutile.” e che “Sarebbe bastata una telefonata al 118, con il cellulare che gli avevano rubato, e Sestilio Cottini sarebbe ancora vivo” gli accusati, dopo aver confermato la tesi del colpo per andare a divertirsi in discoteca, prima raccontano di aver agito per la paura di essere uccisi a loro volta e poi tentano la carta del colpo partito per sbaglio.

Giudicati col rito abbreviato, Polimeni viene condannato a 16 anni, Izzo (in aula anche per spaccio) a 19 anni e 8 mesi, Turrisi a 6 anni e 2 mesi (per droga) e Quarta a 2 anni per detenzione d’arma e favoreggiamento.

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