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L'incredibile storia di Francesco Fuschi: l'agente segreto, killer e ladro che sfidò la morte

Dall'armeria di Susa ai corridoi della Procura di Torino: un racconto tra verità e finzione

L'incredibile storia di Francesco Fuschi

L'incredibile storia di Francesco Fuschi: l'agente segreto, killer e ladro che sfidò la morte

19 aprile 1996.

Al numero 1 di via Torquato Tasso, ai tempi, c’è la Procura della Repubblica di Torino. Qui, al secondo piano, c’è un uomo che dal luglio dell’anno precedente non fa che entrare e uscire da quel palazzo.

Sale le scale, si siede davanti al magistrato di turno, riempie uno dei tantissimi verbali con in calce la sua firma e se ne va. Quel giorno, però, intorno alle 15,30, nel mezzo di uno dei suoi colloqui, chiede di andare in bagno. Chiude la porta dietro di sé e, dopo qualche secondo, un boato riempie l’aria: quell’uomo si è sparato in testa.

Sembra l’epilogo, ma incredibilmente il proiettile, pur passandolo da parte a parte, non lo uccide. L’uomo viene soccorso e portato all’ospedale, ma, a quel punto, dopo un’azione così eclatante, il suo nome diventa di dominio pubblico: si chiama Francesco Fuschi.

Originario di Padova e stabilitosi a Mattie (sopra Bussoleno) Fuschi è un contadino cinquantenne con un passato da sommozzatore incursore nella marina militare, priore della locale parrocchia e autonomista piemontese. Ma è anche qualcos’altro: fa parte del SISDE, il servizio segreto civile dell’epoca.

La storia che lo porterà con una pallottola alla tempia in quel bagno inizia nel 1990. A Susa c’è un’armeria che si chiama Brown Bess che è gestita da Luisa Duodero e dal figlio Andrea Testa. Un giorno Fuschi entra nel negozio e, qualificatosi come agente dei servizi, riferisce alla signora che avrebbe dovuto rifornirlo di pistole e fucili in maniera non ufficiale.

A garantire l’operazione, oltre a Fuschi, quattro carabinieri e altri due uomini del SISDE. In 3 anni dall’armeria usciranno 395 pistole e 2 fucili. Alcune armi finiranno nelle mani di neofascisti, altre verranno appositamente fatte ritrovare da Fuschi ai carabinieri (simulando brillanti operazioni) e una verrà sequestrata a un boss della ‘ndrangheta.

                                                         

Dalle successive indagini si viene a sapere che il contadino collabora anche con la Polizia. Questo provoca l’irritazione del maresciallo Tessari (uno dei quattro carabinieri dell’affaire Brown Bess e “capo” di Fuschi) che se lo “canta” in questura per un omicidio che il suo protetto avrebbe compiuto nel 1987, ma senza portare prove concrete.

È in questo momento che scoppia l’inferno. Sentitosi bruciato, Fuschi inizia a raccontare alla polizia dei suoi affari col maresciallo, delle armi, dei suoi rapporti istituzionali. Quando però si rende conto della pericolosità delle sue rivelazioni e delle persone coinvolte, cambia registro.

Nessuno lo sospetta, nessuno gli ha chiesto nulla quando, a gennaio 1996, inizia a parlare di altro. Si autoaccusa di 30 omicidi. Alcuni in Italia, altri all’estero, l’ultimo nel 1994, i primi quando era sommozzatore, in Pakistan, Giappone ed Egitto. È un fiume in piena e gli inquirenti, spesso, si trovano in mezzo a un marasma di informazioni tra cui stabilire realtà e finzione è quasi impossibile.

Fuschi si accolla di tutto: si autoaccusa di aver fornito l’esplosivo per l’attentato sull’Italicus del 1974, per quello sul Siracusa-Torino del 1993, di aver ucciso Roberto Calvi a Londra, di aver partecipato all’attentato di Piazza Fontana a Milano e, soprattutto, di aver compiuto 3 omicidi per conto del colonnello Mario Ferraro del SISMI, che era stato trovato morto nella sua casa l’anno prima a seguito di un presunto suicidio con tante zone d’ombra. È proprio dopo aver fatto questo nome che tenta di uccidersi in procura.

Principalmente, però, si scopre che Franco Fuschi è un ladro. Ruba di tutto, dall’oro alle televisioni, dagli elettrodomestici alle canne da pesca. E anche armi, di cui è appassionato e che, come racconta, non si fa scrupoli ad utilizzare contro chi si mette tra lui e i suoi bottini. Tra il 1977 e il 1994 gli omicidi accertati saranno 11. Colpisce a Grosso Canavese, a Villardora, a Rivalta, a None, a Piossasco, a Carmagnola, a Poirino, a Chieri, a Moncalieri, a Volpiano. Quasi sempre in periferia del paese, quasi sempre prendendo a bersaglio villette isolate.

Sono omicidi assurdi. La signora Maria Rosa Carpinello, per esempio, è in casa del fratello per caso con degli amici, a Piossasco. Quando alcuni di loro scorgono Fuschi fuori dall’abitazione ed escono urlando, questi pensa bene di sparare contro il muro della casa “per fargliela pagare”. Un proiettile di rimbalzo la ucciderà. Oppure il caso di Lorenzo Bertini, ucciso nel 1991 nel canavese. Uscito del balcone avvertito dal latrato dei cani, viene colpito al cuore da proiettile calibro 22. <<Volevo provare il silenziatore, ho mirato a una lampada, ho preso il ragazzo>> le parole agghiaccianti di Fuschi.

Un altro, Antonio Ferrero Giacominetto, nel 1979 viene colpito mentre gli si fa avanti con un forcone nel giardino di casa. Il killer gli spara ma il caso viene derubricato come morte naturale fino alla riesumazione del corpo nel 1997, quando, su indicazione dell’assassino, viene trovata la pallottola fatale vicino al cuore. Per alcuni viene riconosciuta la premeditazione, per altri dice che “non poteva dire di no al colonnello Ferraro”, altre volte dirà che ha sparato “perché avevo una pistola”. Sospettato anche di aver partecipato a vari attentati sulla linea ad alta velocità Torino – Lione (per i quali la sua storia va a intrecciarsi con le morti di Edoardo Massari e Maria Soledad RosasSole e Baleno).

Fuschi viene condannato nel 1999 a due ergastoli per gli 11 omicidi e a 8 anni per calunnia e autocalunnia.

Se tante cose della sua storia rimangono misteriose, altrettanto è la morte. Viene trovato senza vita nel carcere di Alessandria nella notte tra il 24 e il 25 aprile 2009. Forse morto per infarto, forse suicida. L’ultimo capitolo di una vita in cui è impossibile stabilire il confine tra finzione e realtà.

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