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Ombre su Torino

Una notte da incubo. La tragedia della famiglia Iorio

Una terrificante storia tra le mura di casa.

Una notte da incubo. La tragedia della famiglia Iorio

19 maggio 1983, qualche minuto prima di mezzanotte.

In via Roccati 50 l’alloggio è al buio, silenzioso, sono tutti tra le braccia di Morfeo. Aldo Iorio ha messo delicatamente la chiave nella toppa e, una volta entrato, è andato subito in camera da letto a coricarsi. Anche quella sera il letto matrimoniale è tutto per lui perché la moglie, da qualche mese, dorme sul divano. Il rapporto con la coniuge, Clara Visnardi, è in crisi da tempo. Litigano praticamente ogni giorno perché la donna ha scoperto che il consorte ha una relazione extraconiugale e la loro storia si trascina tra scenate, denunce e propositi di separazione. Clara, però, non ce la fa ad andare via di casa, soprattutto per non rovinare ulteriormente la vita ai figli Massimo e Roberta, di 17 e 12 anni.

La mattina dopo Aldo si alza intorno alle 7 perché lavora a Collegno come disegnatore. Va verso la cucina e, passando per il soggiorno, nota che sul sofà la moglie non c’è.

Iorio va a cercarla in camera della figlia perché ogni tanto dormivano insieme. Apre la porta ma l’ingresso è ostacolato da qualcosa di molto pesante: è il cadavere di Clara. È appesa a una corda fatta di stracci che si è passata intorno al collo e che ha legato a tre chiodi sporgenti dal muro. Una scena già raccapricciante che ne nasconde, se possibile, una peggiore. Vicino al letto, per terra, giace il corpicino di Roberta, strozzata da un foulard. Sconvolto, Iorio va in camera dall’altro figlio, Massimo, e lo trova che sta ancora dormendo. Lo sveglia urlando, lo scuote, gli racconta quello che è accaduto. Gli chiede se abbia sentito dei rumori o se abbia notato qualcosa ma il ragazzo gli riferisce che non si è accorto assolutamente di nulla.

Viene chiamata la polizia e la dinamica appare subito chiara: Clara ha ammazzato la bambina e poi si è suicidata. Ad avvalorare questa tesi, a parte la testimonianza del marito, c’è la loro situazione matrimoniale. Tensioni durate per anni sono esplose quando l’uomo ha ammesso di avere un’amante e più volte la signora avrebbe minacciato di uccidere sé stessa e i figli.

Ascoltato come testimone, Massimo descrive un padre violento, una madre umiliata e quotidiani traumi per lui e sua sorella. Sentito sui suoi spostamenti il 19 maggio, l’adolescente riferisce di aver lavorato tutto il giorno in officina e poi, dopo lezioni alle serali, di essere tornato a casa alle 22,30. È molto stanco, va subito in camera a riposare. “Non c’era nessuno sveglio” racconta “ma ho pensato che mamma fosse uscita e che Roberta stesse dormendo”.



La teoria dell’omicidio-suicidio resta in piedi per sette ore. Massimo cade in contraddizione, fa confusione con gli orari, inizia a balbettare. Poi, improvvisamente, vuota il sacco: è stato lui, ha fatto fuori la madre e la sorella.

“Quella sera sono tornato alle 22,30. Mamma era in salotto. È da un po’ di tempo che litigavamo: non mi faceva uscire la sera, mi controllava. Era un’ossessione”.

Poi aggiunge: “L’ho insultata, siamo venuti alle mani e le ho stretto il collo finché è crollata. Ho trascinato il cadavere in camera di Roberta. Mi ha visto, ho dovuto uccidere anche lei. Poi ho simulato il suicidio.”


Dopo questa terrificante confessione il ragazzo viene immediatamente arrestato e rinchiuso nel carcere minorile di Torino, il Ferrante Aporti. Fuori, nel frattempo, il sentimento più diffuso tra parenti, compagni di scuola e colleghi di Massimo è quello della totale incredulità.

In mezza pagina su La Stampa del 21 maggio vengono raccolte decine di testimonianze di persone che lo conoscono e sono tutte concordi: non può essere stato lui. Il giovane viene descritto come uno molto sveglio e in gamba, il primo della classe, un operaio modello. Uno che non sembra avere particolari problemi ma anzi impegnato in politica con la FIGC, appassionato di moto e fidanzato con Laura.


Il fatto è che hanno tutti ragione.

Il 23 maggio, qualche ora prima che arrivino i risultati delle perizie sui corpi delle vittime, Massimo ritratta e dipinge uno scenario ancora più cupo. Quella sera ha effettivamente avuto un diverbio con la madre ma la cosa si è risolta ed è andato a letto. A notte fonda, intorno alle 3, si sveglia come in un incubo: la Visnardi sta tentando di strangolarlo con un legaccio intorno al collo. Il ragazzo si difende, riesce a scacciarla e si chiude dentro la stanza. Da dietro la porta sente dei rumori ma ha troppa paura di uscire: probabilmente in quel momento Roberta è già morta e la madre si sta impiccando.



Le risultanze scientifiche gli danno ragione. Sulla gola di Massimo vengono trovati i segni di una corda stretta con forza e filamenti della stessa finiscono sotto le sue unghie. La parte più problematica della sua confessione (simulare il suicidio della madre issandone i 75 kg di peso) viene smontata dal professor Baima Bollone: la causa del decesso della donna è asfissia meccanica da impiccagione.

Rimasto in cella con l’imputazione di autocalunnia e omissione di soccorso, Massimo non riesce a partecipare ai funerali il 24 maggio. Viene scagionato il 3 giugno, quando sui giornali il dibattito sulla vicenda è già intenso da qualche giorno. Psicologi si accavallano per spiegare il comportamento del diciassettenne, ne immaginano i traumi infantili, ipotizzano che questi si sarebbero tramutati in fantasie sadiche e aggressive contro il padre e la madre. Il senso di colpa per aver avuto certi pensieri, senza però averli mai messi in pratica, sarebbe stato alla base della falsa confessione.
Da par suo il giovane racconta di aver voluto salvare la figura materna, il suo onore, la sua memoria.

Diventando la terza vittima di questa storia terrificante.

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