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Sotto la cintura (l’Otto marzo il giorno dopo)

Meloni sala delle donne

Meloni "sala delle donne"

Nonostante gli sforzi, sono qualche migliaio le gatte (anche se piuttosto rumorose e fantasiose) che, l’8 marzo, sono scese non in campo, ma in piazza. Molte di queste gatte sono bigie, non perché si fan vedere di notte (come dice il proverbio, appunto), ma per l’età e per il coraggio di osare, con vanto, il grey. 

Ve ne sarete accorte: l’Otto marzo è stato derubricato dal calendario laico, praticamente andato (quasi) in soffitta. Al suo posto si è affermato il femminismo vittimario del 25 novembre, al grido di «niente streghe, tutte vittime». Quelle dell’Otto marzo, le gatte bigie che si ostinano, se la devono vedere col genere, gender per gli amici: se non è trans, il femminismo non si sa più cos’è. Tra genere e gender si fa una confusione del diavolo, complice qualche ministra del governo, ex radical-femminista e, adesso, passata all’avversario.

Dall’altra parte non è che ci siano le idee tanto chiare: servirebbe fior fiore di filosofe per sbrogliare la matassa. Le esperte della materia ci dicono che il femminismo della «quarta ondata» (bisogna prima sapere delle altre tre) è «intersezionale, inclusivo e decoloniale», intendendo con questo un femminismo che riconosce l’esistenza di una sovrapposizione tra diverse forme di oppressione (non solo il genere, ma anche la razza, la classe, la normo-abilità), inclusivo verso gli uomini e, come abbiamo visto in questi giorni, un movimento che fa un uso massiccio (e strategico) dei social-media.

Era tutto molto più semplice quando, nel 1971, Rosanna Fratello cantava «Sono una donna, non sono una santa», un inno al desiderio femminile il suo «ti prego ammore miio lasciami stareeee, se no non ce la faccio ad aspettareeee». 

Per tornare a questo Otto marzo, i media tradizionali e la politica hanno fatto a gara per una narrazione conformista, come si dice adesso, politicamente corretta, tesa ad enfatizzare il ruolo, le capacità e i successi delle donne. Insomma, una mainstream stucchevole. 

La presidente Meloni vede la sua immagine riflessa in quello specchio che verrà sostituito dal ritratto della prima presidente della Repubblica (specchio, specchio, delle mie brame, chi sarà la più potente del reame?) e porge la mela avvelenata del presidenzialismo alle donne di questo Paese. Un messaggio in stile kennediano (non chiederti cosa può fare il tuo Paese per te, ma chiediti cosa puoi fare tu per il tuo Paese), uno sberleffo al femminismo (non rivendicare, ma fai). Insomma, «self-made woman», in salsa meloniana.  

Sullo fondo, ma ben presente, la disputa tra la presidente e la segretaria sul nome di donna aggettivato (vera, verissima, con prole e utero, in transizione, transitata, eccetera) che, tra un po’, si ricorrerà all’expertise. Insomma, per dirimere la contesa, si tireranno in ballo, come per l’ammissione a particolari ordini cavallereschi, i quarti di femminilità. 

E, allora, l’Otto marzo? 

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