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08 Novembre 2025 - 11:09
Una serata all’insegna della giustizia, della lotta alle mafie e al terrorismo, con un occhio di riguardo verso i più giovani. Questo è stato l’incontro avvenuto venerdì scorso al salone Don Camillo Ferrero a Gassino Torinese. Ospite d’eccezione: Gian Carlo Caselli, ex magistrato e procuratore della Repubblica a Palermo, già noto durante gli anni ‘70 per la lotta alle Brigate Rosse e a Prima Linea.
Ed è proprio ai più giovani, oltre che a una sala piena di persone, che il sindaco Cristian Corrado ha rivolto il suo pensiero a inizio evento: «È un’emozione per noi questa sera vedere un paese vivo e una sala gremita, anche al termine di una giornata di lavoro. Associamo spesso la legalità a una serie di norme “mostruose” che le istituzioni ci obbligano a rispettare, ma questa sala ci dimostra che in realtà non ci obbliga nessuno. Siamo noi che scegliamo la legalità perché viviamo in una società civile, accettando determinate regole per vivere. È importante che i giovani capiscano quale sia la “vera verità” delle cose».
Non solo, ha aggiunto il sindaco, «ciò che piace sentirci dire e che conferma la nostra idea», ma la realtà storica dei fatti, perché «un giovane la sua verità se le deve ancora fare, e quindi la nostra intenzione con questa serata è di trasmettere i valori della verità, della democrazia e del rispetto».
Oltre ad alcuni consiglieri comunali e assessori gassinesi – tra cui Elena Casciano, Gabriella Brusato e Roberta Macaluso, ma anche l’ex-sindaco Paolo Cugini tra il pubblico – hanno partecipato Andrea Zummo, referente provinciale di Libera, e la giornalista Carola Speranza come moderatrice.
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Ma che cos’è veramente la “giustizia”? E cosa la “legalità”? A chiarire la natura delle due parole e stato Andrea Zummo: «Il vero obiettivo della giustizia è la giustizia sociale, perché in nome della “legalità” si sono fatte anche le peggio cose nella storia. La legalità è un mezzo per la giustizia, non un obiettivo. Lo dico perché a volte si abusa di questo termine».
Nel corso degli anni, le mafie hanno cambiato forma. Sparano di meno, ma agiscono di più sottobanco (e anche online), come già aveva dichiarato don Ciotti lo scorso 26 settembre, quando gli era stata conferita la cittadinanza onoraria di San Mauro Torinese.
«Se ci fate caso – ha aggiunto il referente di Libera – siamo in un tempo in cui non si parla più di mafia, se non per eventi eccezionali, tipo l’arresto di Matteo Messina Denaro. L’attenzione della cittadinanza a riguardo non si può limitare ai grandi fenomeni mediatici. Le mafie non sono evaporate, ma hanno capito che è molto meglio continuare nell’ombra e nel silenzio, senza fare chiasso e senza far scorrere il sangue».
Potere, controllo, violenza, intimidazione, omicidio. Sono molte le parole che si possono associare alla mafia, da intendersi non solo come organizzazione criminale in senso stretto, ma anche con un’accezione più larga: una dinamica di sopraffazione. «Queste parole possono essere intese anche nel contesto della violenza di genere e dei femminicidi. Spesso queste donne si trovano in dinamiche “culturalmente mafiose”. E allora si tratta anche di una questione educativa e formativa, e mi dispiace che il ministro dell’Istruzione non ritenga prioritaria l’eduzione sessuale», ha commentato Zummo.
Quella di Gian Carlo Caselli, oggi 86enne, è una lunga carriera nel mondo della giustizia. Tra gli anni ’70 e ’80 si è dedicato, come giudice istruttore, alla lotta al terrorismo rosso – comprese le indagini per il sequestro del giudice Mario Sossi nel 1974. Ha lavorato al fianco di Bruno Caccia, coordinando l'indagine che portò l'8 settembre 1974 alla cattura a Pinerolo di Renato Curcio e Alberto Franceschini, esponenti di spicco delle BR.
Una nuova stagione della sua vita si aprì però dopo la strage di Capaci nel 1992, quando chiese volontariamente il trasferimento a Palermo come procuratore della Repubblica, formando un pool antimafia con diversi giovani giudici italiani – tra cui Antonio Ingroia – e prestando particolare attenzione ai collaboratori di giustizia. Le sue indagini condussero alla scoperta di una “Tangentopoli siciliana”. Dopo ulteriori anni, dedicati alla lotta alle mafie, Gian Carlo Caselli è in pensione dal 2013. Da allora, si è dedicato maggiormente alle sue attività di saggista e conferenziere.
Gian Carlo Caselli
Ma qual era il clima che si respirava nella Palermo dei primi anni ’90, tra il Maxiprocesso alla mafia e la fine della Prima Repubblica?
«Oggi non si parla più di mafia, è vero, ma prima di allora si diceva addirittura che la mafia “non esisteva”. Lo dicevano persino importantissimi cardinali, intellettuali e uomini politici. E invece la mafia c’era, anche se nessuno la cercava. Nel 1982, la mafia uccide Carlo Alberto Dalla Chiesa, sua moglie Emanuela Setti Carraro e il loro autista Domenico Russo. Il nostro Paese si sdegna, si arrabbia, esplode. Forse per la prima volta. E chiede che si faccia qualcosa, e qualcosa si fa: la legge Rognoni-La Torre, che riconosce l’associazione mafiosa. I mafiosi iniziano ad accettare di farsi un “un po’ di galera”, ma non tollerano che vengano confiscati i loro beni. A livello giuridico, si inizia a puntare su specializzazione e organizzazione nella lotta alle mafie: le punte di diamante di quel “pool” erano Falcone e Borsellino. Usando bene l’intelligenza e applicando l’articolo 416-bis, mettono in piedi un capolavoro: il Maxiprocesso», ha ricordato Caselli.
Il magistrato alessandrino era già sfuggito agli attentati degli “anni di piombo”, ma qualcosa lo spinse a trasferirsi in Sicilia tra la fine del 1992 e l’inizio del 1993. Dopo la strage di Capaci, Paolo Borsellino fece recapitare a Caselli un biglietto nei suoi ultimi 57 giorni di vita: «Per lei non è ancora arrivato il tempo di andare in pensione». Un messaggio che, riletto dopo l’attentato di via D’Amelio, cambierà per sempre la sua vita.
«Sono questi i motivi che mi hanno spinto ad andare a Palermo – ha ricordato Caselli –, ma non solo. Dopo dieci anni di lotta al terrorismo, vado dai miei figli e dico loro: “Guardate, pensavamo tutti, io per primo, che cominciasse una nuova vita normale, e invece no. Avrei pensato di fare domanda per andare a lavorare a Palermo”. La mia famiglia mi ha sempre sostenuto. Dopo essermi confrontato più volte con mio figlio, mi disse: “Nel nostro paese siamo tutti capaci a dire cosa si deve fare, ma poi, quando è il momento di farlo, non lo facciamo. Vuoi andare a Palermo? Vacci, anche per dire di no”».
Gian Carlo Caselli vive sotto scorta dagli anni ‘70, contrariamente ad altri uomini e donne di giustizia che hanno invece perso la vita. Fu anche la sensazione di avere un “debito” verso i suoi colleghi a spingerlo ad andare in Sicilia: «Avevo un debito, questo sì. Penso altri magistrati. Ai tempi dell'antiterrorismo, io godevo della protezione di una scorta. Io sono scortato dal 1974. Ho un debito nei confronti della mia scorta, ma anche nei confronti di quei magistrati uccisi. Penso soprattutto a Emilio Sandrini e Guido Galli, che per me era un fratello».
Accogliere Gian Carlo Caselli nella periferia torinese è stato venerdì sera un gesto tutt’altro che simbolico. Non solo un incontro rivolto alla cittadinanza e ai più giovani, ma anche una conferenza in un territorio in cui sono presenti diversi beni confiscati alla mafia, come l’attuale sede dei Vigili del Fuoco a Volpiano o l’ex-cascina della famiglia Belfiore a San Sebastiano da Po. Segno tangibile che le mafie non sono un fenomeno circoscritto al Sud-Italia, come ha dimostrato anche l’inchiesta Echidna.
Il prossimo appuntamento sarà il 21 marzo in centro a Torino, la giornata per ricordare le vittime innocenti delle mafie, promossa da Libera. Sono infatti a oggi più di 1000 le persone uccise da Cosa Nostra e da altre organizzazioni criminali. Circa il 10% di loro ha meno di 18 anni.
In un tempo in cui le mafie cambiano volto e la memoria rischia di affievolirsi, l’incontro di Gassino Torinese ha ricordato che la legalità non è un concetto astratto, ma una scelta quotidiana. Le parole di Gian Carlo Caselli hanno risvegliato il senso profondo della giustizia, quella che non si limita ai tribunali ma che abita nei comportamenti di ognuno, soprattutto dei più giovani, chiamati a raccogliere un’eredità di impegno e coraggio civile.
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