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Ombre su Torino

Delinquenti in bianco e nero: la Banda dei Vinattieri

Il gruppo criminale più famoso dell'allora Regno di Sardegna

Delinquenti in bianco e nero: la Banda dei Vinattieri

22 febbraio 1850.

Alla Corte di appello di Torino è arrivato a sentenza uno dei processi più importanti di quel periodo storico. Il verdetto è appena stato pronunciato e uno dei condannati è scattato in piedi, inferocito. Urla, bestemmia e rivolge ogni immaginabile improperio nei confronti di uno dei suoi co-imputati, suo cugino. Lo chiama infame, gli grida che si è appena preso vent’anni per la sua “cantata” e poi all’improvviso tenta di mettergli le mani addosso. Il vociare dell’aula viene interrotto dal boato di un colpo di pistola: un carabiniere ha appena colpito in testa l’aggressore, che muore sul colpo. Evidentemente, ai tempi, certe contese si potevano risolvere più sbrigativamente di oggi.

I due protagonisti di questa storia sono in tribunale insieme ad un’altra quindicina di persone in quello che qualche tempo dopo si sarebbe potuto chiamare un “maxi-processo”. Alla sbarra c’è il gruppo criminale più pericoloso e noto del Piemonte: la Banda dei Vinattieri.

Sono di estrazione sociale bassa, per la maggior parte analfabeti, pluripregiudicati ed emarginati dalla società. Contadini, pastori e muratori con una grande passione: le rapine. Guidati dai cugini Artusio, Giovanni, Pietro e Vincenzo (questi ultimi due aggredito e aggressore del nostro prologo) colpiscono in varie parti del Piemonte per poi tornare a nascondersi a Torino.

A quell’epoca imboscarsi in città era più facile che in campagna. Spesso si dividono in batterie di 3/4 membri ciascuna ed è anche per questo motivo gli inquirenti collegheranno le diverse azioni solo dopo qualche anno. Normalmente li si può trovare sulle strade che portano alle varie fiere e mercati dei paesi. Si appostano, spesso di notte, e poi attaccano chiunque passi: carrozze, carretti, persone a piedi o a cavallo.

Riescono quasi sempre a scappare facilmente col bottino ma a volte le cose vanno diversamente: a carico della banda ci sono quattro omicidi. A farne le spese sono un commerciante di Carmagnola, Saul Diena, uno di bestiame, Giuseppe Cantù (a Moncalieri) Gabriele Beltramino e Vittoria Appendino. Quest’ultima fu anche stuprata.

In 5 anni di scorribande riescono a collezionare 90 capi d’imputazione. Decisiva è la cattura di Pietro Artusio. Questi decide di collaborare con la giustizia con la promessa di uno sconto di pena, cosa per altro non prevista dal codice di allora. Le sue confessioni porteranno a numerosi arresti e alle ammissioni e delazioni a cascata degli altri membri accusati.

È la fine dell’unità del gruppo e il vero aprirsi di una faida familiare tra cugini e fratelli. Un tutti contro tutti di rivelazioni e spiate che però poi, in tribunale, saranno quasi tutte ritrattate. Il processo, uno dei primi a essere seguitissimo dall’opinione pubblica, si tiene a cavallo tra il 1849 e il 1850.

Viene rispettata la parola data a Pietro Artusio che viene condannato a soli cinque anni. Peggio va al resto della compagnia. Pene tra i cinque e i vent’anni di carcere per alcuni, lavori forzati tra i dodici e diciassette anni per altri. E tre condanne a morte per impiccagione eseguite al Rondò d’la forca di Torino il 18 aprile 1850.

A farne le spese saranno Giovanni Domenico Guercio, Michele Violino e Lorenzo Magone. I loro teschi, insieme a quello di Vincenzo Artusio, sono custoditi nel Museo di Anatomia dell’Università di Torino.

Proprio dove, esaminandoli nei più piccoli dettagli, un medico maturerà le sue teorie per le quali il comportamento criminale delle persone è insito nelle sue caratteristiche anatomiche: Cesare Lombroso.

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