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Una notte di sangue. Fratricidio a Ivrea: la tragica storia di Pietro Falleto Valora

Un articolo di Adriano Collini per la rivista Canavèis

Una vecchia foto di Alice

In quella gelida notte del 4 gennaio 1614 successe ciò che i più, a Ivrea, ad Alice, ad Azeglio avrebbero poi definito assurdo, incredibile, non degno di essere raccontato; i più vecchi avrebbero commentato, in termini amari ed insieme rassegnati:

Ecco! A questo punto siamo arrivati!

Di questi tempi non c’è più da stupirsi di niente!

Questo il risultato che viene da tanti anni passati a parlare sempre di guerra! Di quelle fatte e di quelle che si devono fare. Guerra ai francesi, guerra agli spagnoli! Tanto che adesso ci si ammazza tra parenti!

Questo il fatto: tre giovani di Azeglio, probabilmente tre scapestrati – che ci facevano a Ivrea, se no, nel pieno della notte? –, ne uccisero un altro di Alice – e che ci faceva anche lui, lì, a quell’ora? – per appropriarsi di una certa qual somma di denaro che era in suo possesso.

La vittima era tale Pietro del fu Martino Falleto Valora. I responsabili dell’omicidio erano Manfredo del fu Domenico Manfredo e i fratelli Francesco e Pietro di Borri, tutti e tre di Azeglio.

Ma cos’era che rendeva questo fatto di sangue tanto diverso dalle molte violenze che, nel bel mezzo del secolo di ferro quotidianamente si verificavano sulle strade canavesane? Omicidi, rapine, ruberie, risse erano all’ordine del giorno. In cosa allora questo assassinio si discostava da tutti gli altri per destare tanto orrore nell’opinione pubblica?

La grave crudezza di quanto avvenuto stava nella parentela che legava la vittima ad uno dei suoi assassini; Pietro Falleto Valora, infatti, era cognato del Manfredo, che ne aveva sposato una sorella, Gina.

Il documento che ci presenta la vicenda (1) fornisce solo indicazioni sulla sostanza dei fatti e lascia insoddisfatta la nostra curiosità, che ne vorrebbe conoscere i dettagli. Molte domande non trovano risposta: com’è successo? perché? quali circostanze avevano determinato l’incontro dei quattro protagonisti? ci fu un litigio? se sì, quali ne furono le cause? tra i due cognati c’erano questioni in sospeso? cosa avevano a che fare i due fratelli di Borri con Manfredo?

Di sicuro non si trattò di una semplice rapina. Ci doveva essere dell’altro.

Fatto sta che le tre teste calde furono presto arrestate e rinchiuse nelle carceri del castello vecchio. In quella prigione Manfredo ci stette parecchio: doveva essere sano e forte quando ci entrò, perché non si poteva essere deboli di salute per sopravvivere a lungo a tutti quei disagi; freddo, umidità, parassiti, scarsezza di luce, di aria e di cibo!

Gina lo aspettava ad Azeglio. Aveva cominciato ad aspettarlo da quella notte, o forse, chissà, era già abituata ad aspettarlo da che l’aveva sposato. Ad Alice, quella stessa maledetta notte, sua sorella Domenica aveva aspettato inutilmente Pietro. I tre erano orfani, non si sa da quanto tempo. Non si ha notizia di quali fossero le loro condizioni economiche e di quando Gina avesse sposato Manfredo. Come si erano incontrati, lei di Alice e lui di Azeglio? Forse a Ivrea, in un giorno di mercato. Certo è che, perché si creasse un rapporto e poi un fidanzamento, e perché si giungesse al matrimonio, qualunque fosse stata l’occasione che li aveva fatti conoscere, avrà dovuto ripetersi con una certa costanza nel tempo. Avevano poi generato dei figli o Gina, in quel gennaio, non era ancora madre?

Mi sto accorgendo di muovermi sul crinale che separa la storia dalla letteratura: quando lo storico vuol narrare un avvenimento, specie se si tratta di eventi marginali spersi nel grande mare di questioni importanti, si trova sempre davanti una gran mole di chissà, di forse e di possiamo immaginare che lasciano spazio alla fantasia.

È molto probabile, ad esempio, che la Gina, dopo quel giorno, settimanalmente, partisse da Azeglio per andare a trovare il proprio uomo ad Ivrea: bisognava pur portargli qualcosa da mangiare e la biancheria pulita! E poi occorreva che i due parlassero di ciò che poteva essere fatto per alleviare la situazione. Col passare del tempo, per quanto Manfredo fosse forte, la vita del carcere doveva parergli insostenibile. Non avrebbe potuto resistere ancora per molto senza prendersi una qualche malattia o senza perdere la testa.

La colpa commessa era lì, davanti agli occhi di tutti, ma Manfredo ad ogni costo voleva uscire di prigione, evitare tutte quelle pene. Forse pensava che quanto successo non si fosse verificato solo per colpa sua. Forse non si sentiva l’unico responsabile del fattaccio. Le cose si erano intrecciate l’una sull’altra e ciò che era avvenuto era avvenuto solo per colmo di disgrazia. E forse anche Gina la pensava così, anche se suo marito aveva accoppato suo fratello.

Bisognava assolutamente chiedere la grazia a Sua Altezza Serenissima! Per farlo occorreva necessariamente ricorrere ad un avvocato. E Gina si era data da fare. Si era rivolta con tutta probabilità a quell’avvocato Baletti nella cui abitazione fu formalizzato l’atto notarile che ci descrive, molto sommariamente, come andarono le cose. E in qualche modo aveva racimolato i soldi per pagarne la prestazione.

Il legale aveva subito detto che per chiedere la grazia era prima di tutto necessario ottenere il perdono dagli eredi di Pietro.

Lassù, ad Alice, nella casa paterna, era rimasta solamente Domenica. Ora che Pietro era morto, erede dei beni paterni era lei. Quando sua sorella Gina salì al paese per chiederle di concedere la perdonanza a suo marito, che altro poteva fare? In fondo Gina era sua sorella, sangue del suo sangue, come Pietro buonanima. Ora Gina si ritrovava sola, lontana da parenti e amici e conoscenti, senza un uomo che pensasse ai suoi bisogni. E poi occorreva pur dimostrare un po’ di amor di Dio e di carità. A chi avrebbe giovato che lei negasse la perdonanza? Proprio a nessuno. Tutti quanti, lei per prima e Gina e Manfredo, avrebbero avuto ulteriori motivi per farsi il sangue amaro. Manfredo, inoltre, poteva essere stato spinto da qualche valido motivo per nutrire nei confronti di Pietro tutto quel rancore che l’aveva trascinato a compiere quella pazzia. Sì, in definitiva il perdono deve esserle parso come la cosa migliore.

Quando le due sorelle si ritrovarono nell’abitazione dell’avvocato, insieme al notaio Perroneto di Pecco, a cui Domenica si era rivolta, mancavano solo due mesi per arrivare al compimento del quarto anno di carcerazione per Manfredo.

Non sappiamo quale fu l’esito della richiesta di grazia. È certo che Sua Altezza Serenissima l’avrebbe concessa solo in presenza di valide ed oggettive attenuanti.

Ma si poteva contare su queste attenuanti? Chi lo sa! Qui lo storico incontra i suoi limiti e deve fermarsi. Potrebbe procedere il letterato. E come? Cercando di costruire un’ipotesi tanto plausibile da poter sembrare vera.

Il narratore potrebbe ad esempio supporre che sì, di attenuanti ce n’erano per Manfredo. Come potrebbe altrimenti una moglie perdonare il marito per averle ammazzato il fratello? E una cognata rinunciare a vendicarsi dell’uccisione dell’unico uomo che le era rimasto in casa?

E allora, su cosa avrebbero potuto appoggiarsi queste attenuanti? Il narratore potrebbe immaginare, tenendo conto del fatto che vittima e omicida erano cognati, che tra loro pendessero questioni relative alla dote di Gina, prevista certamente nel testamento del padre e forse mai passata nelle mani di Manfredo.

Il litigio tra i due potrebbe essere stato generato proprio da questi motivi, specie se, all’ennesima richiesta da parte di Manfredo, Pietro avesse risposto, magari con una certa arroganza, con un ennesimo rifiuto. E ciò nonostante il fatto che in tasca tenesse un gruzzoletto.

Quanto accaduto è vero, per quanto possa sembrare assurdo. Ma difficilmente potrà essere fatta piena luce sul perché è accaduto. Anche se disponessimo di altri documenti atti a riscontrare quello rinvenuto, riusciremmo a chiarire del tutto i particolari della vicenda? O questa resterebbe ancora confusa? La si potrebbe ancora narrare in mille modi, tutti verosimili. E la vicenda potrebbe essere agìta da tanti personaggi diversi a rappresentare lo stesso uomo (o la stessa donna). E le caratteristiche dei personaggi contribuirebbero a definire - o meglio, inventare - i dettagli della vicenda che esulano dal contenuto del documento.

Se lo storico potesse andare oltre i limiti impostigli dalla solitamente scarna documentazione, che ci starebbe a fare il letterato? Lo storico non giungerà mai a possedere la completa verità ed è probabile che sia proprio il letterato, narratore o poeta, con le sue invenzioni, con la sua fantasia, ad accostarsi maggiormente a questa.

Ho definito assurda, ma vera, una vicenda che è realmente vera, ma non tanto assurda. Di episodi orrendi, o che per qualche motivo ci paiono incredibili, la vita ne è piena. La realtà è spesso più terribile della fantasia. Volendo paragonare il fatto narrato con altri accaduti ad Alice e dintorni nel XVII secolo, è sufficiente scorrere la cronachetta secentesca pubblicata da Guglielmo Berattino (2): vi troviamo un uomo ucciso dal fratello, un figlio ucciso dal padre, un nipote ucciso dallo zio, due fratelli morti ammazzati alla festa di Rueglio, sei o sette altri morti ammazzati da non si sa chi, un padre che uccide la figlia e poi si sopprime. C’è materiale sufficiente a suggerire allo scrittore un intero volume di racconti. Ma lo storico, per quanto lo riguarda, quando indaga su fatti di tal natura si rifiuta di assumere le vesti del giornalista di cronaca che mira a trasformare in spettacolo la tragedia: a lui questi stessi fatti interessano perché lo aiuterebbero a formulare ipotesi di natura storico-sociologica ed allora gli preme maggiormente lavorare sul dato quantitativo piuttosto che su quello qualitativo. Fatto sta, però, che anche per lo storico una semplice rapina compiuta da un brigante da strada, ad esempio, non può essere considerata alla stregua di un omicidio compiuto per difendere l’onore. Per procedere, allora, nell’analisi sociologica, ha bisogno di definire delle categorie e costruire su queste l’indagine statistica. Niente di più difficile! Nel ripartire i casi nelle diverse categorie, infatti, non può che affidarsi ad una grossolana interpretazione dei fatti. Sbagliando la distribuzione dei casi nelle diverse categorie, produrrebbe un’analisi non rispondente alla realtà. E la verità resterebbe lontana.

Forse è meglio lasciare al narratore il compito di trattare fatti di tal genere: è lui che alla fin fine potrebbe dimostrare quella che è una banalità: l’uomo è sempre uomo e la sua natura rimane sempre la stessa.

Note

  1. Archivio di Stato di Torino, Insinuazione, Tappa di Ivrea, Località Valli, m. 1482, ff. 195v-196v, Perdonanza o sia pace di Manfredo di Manfredo di Lessolo.

  2. G. Berattino, Diari canavesani inediti del secolo XVII, in «Bollettino dell’Associazione di Storia e Arte Canavesana», n. 4 (2004), p. 21 sg.

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