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18 Marzo 2023 - 17:20
«Alloggiata» è un termine militare ormai desueto. Un tempo indicava l’accantonamento temporaneo dei soldati in case private per esigenze di servizio. Diffusissima, la prassi consentiva ai militari di riposare meglio rispetto ai normali bivacchi. Dal punto di vista dei civili, obbligati a prendersi in casa uno o più militari, risultava non solo molto onerosa, ma arrecava infiniti fastidi.
In genere si distingueva fra «alloggiamenti di fermo» e «alloggiamenti di transito». Altrimenti definiti «quartieri d’inverno», i primi erano di lunga durata e coincidevano coi periodi in cui le operazioni belliche erano sospese a causa delle avverse condizioni climatiche. I secondi, invece, si caratterizzavano per una minore durata, per lo più imposta dalla necessità di trasferire i reparti da un luogo all’altro per esigenze tattiche o addestrative.
NEL RIQUADRO Cavalleggeri del reggimento Piemonte reale n una rarissima fotografati del 1859
A Settimo Torinese si ha notizia di numerosissime alloggiate. Quanto i popolani fossero felici di ospitare soldati spesso importuni, arroganti e violenti, è facile immaginare. Fra le alloggiate meno antiche si ricordano quelle delle guerre risorgimentali. All’epoca la gente del luogo era tranquilla e laboriosa, un po’ tradizionalista, fedele alla monarchia sabauda, animata da un vivo senso del dovere e dall’amore per la propria terra. Nella zona non si verificavano abitualmente né disordini né eventi criminosi di particolare rilievo.
Nel 1859, durante la seconda guerra d’indipendenza, gli abitanti di Settimo si trovarono alle prese con le truppe di Napoleone III, imperatore dei francesi, in transito verso i campi di battaglia della Lombardia. I soldati si accamparono fuori dell’abitato, ma pretesero il vitto. La sera del 2 agosto 1859 graduati francesi reclamarono la «pronta somministrazione di carne di buoi per la truppa che dovea giungere al mattino susseguente». Altrettanto avvenne per «li altri successivi passaggi nei giorni 11 e 13, […] passaggi che furono improvvisi e senza veruna prevenzione e da non dar tempo al Comune di avere ricorso all’autorità superiore per li opportuni provvedimenti, per la mancanza, nel paese, di macellai di bestie grosse, e di persone che se ne volessero incaricare», come si ricava dalle fonti del tempo.
Ai pubblici amministratori non si presentò altra soluzione che requisire i buoi nelle cascine del territorio, pagandoli in base al valore di mercato, mentre l’intendente militare francese era disposto a riconoscere il solo prezzo dei macelli di Torino, con notevole danno per gli allevatori. «Questo villaggio ben piccolo e tutt’affatto rurale – spiegò il sindaco Costantino Ghiotti – non poteva assolutamente provvedere la carne alle truppe in modo diverso da quello della requisizione per l’urgenza che […] vi avea […] e […] non sarebbe giusto che li proprietari requisiti avessero a subire perdite così gravi, ed in conseguenza il Comune a sopportare in proprio un tanto giusto compenso».
Problemi analoghi continuarono a presentarsi con regolarità anche dopo l’unificazione d’Italia. Valga per tutte la richiesta che il sessantesimo reggimento di fanteria della brigata «Calabria» trasmise, il 1° novembre 1870, al sindaco Giovanni Audoli. Questi fu obbligato a reperire urgentemente un edificio dove accogliere «settanta individui di bassa forza», con dodici muli e sei carri, nonché una camera per il comandante. Il reparto, avanguardia del reggimento che l’indomani effettuò «il grande alt» a Settimo, per il rancio all’aperto, provenendo da Chivasso, pretese un fabbricato «al di là di Settimo, cioè verso Torino, ma non troppo distante dal paese».
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